Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Giuseppe De Rita sugli episodi di razzismo in Italia intitolato ”Troppe tentazioni”. Lo riportiamo di seguito:
”Alcuni ripetuti episodi di insofferenze e di violenza nei confronti di stranieri e di immigrati hanno nelle ultime settimane dato spazio a due fenomeni d’opinione collettiva molto frequenti in Italia. Da un lato la messa in fila e in evidenza mediatica di tali episodi ha fatto pensare che di evento in evento si possa arrivare a un grande avvento, quello del razzismo come nuova grande malattia italiana; e conseguentemente si è scatenata la sequela di dichiarazioni di segnalazione e denuncia del pericolo; di dialettica culturale e di scontro politico; di riaffermazione dei principi di civile convivenza che ha nei secoli contraddistinto la nostra società. Per carità, abbiamo il dovere di aver paura del razzismo e di riproporre atteggiamenti e comportamenti di adeguata nobiltà. Ma non si sfugge all’impressione che vi sia un notevole scollamento fra le polemiche in corso, con inevitabile loro calor bianco, e la più fisiologica e silenziosa evoluzione del modo in cui si fa quotidianamente integrazione di immigrati nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali italiane.
Ogni società fa integrazione attraverso lo sfruttamento delle proprie componenti socio-economiche dominanti: la Germania attraverso la grande impresa, quella che ha metabolizzato senza traumi milioni e milioni di turchi; la Gran Bretagna attraverso i mille percorsi di una multiculturalità ricevuta in eredità dai trascorsi imperiali; la Francia attraverso una regolazione assistenzialista a forte e nota tradizione statalista. Noi facciamo integrazione utilizzando anche inconsciamente le tre grandi componenti del modello italiano: facciamo integrazione nella piccola e piccolissima impresa dove gli immigrati trovano un clima relativamente sereno e parametri di responsabilizzazione personale tanto che non a caso, imitandoci, corrono anche l’avventura imprenditoriale; facciamo integrazione nelle famiglie, dove milioni di collaboratori domestici e di badanti entrano lentamente nella dinamica sociale quotidiana; facciamo integrazione nelle piccole città, nei paesi, nei borghi, dove milioni di immigrati trovano un alto tasso di socializzazione collettiva e sperimentano un adeguato tasso di controllo sociale.
Qualcuno ha parlato in proposito di integrazione «morbida» certo un po’ esagerando specialmente se si ricorda che dai tre processi sopra citati restano fuori due inquietanti realtà: quella delle grandi città e delle loro periferie nella cui anomia senza socializzazione si intrecciano pericolosamente la devianza degli immigrati e l’aggressività di bulli e teppisti indigeni; e quella delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza. Ma è proprio su queste due sorgenti di inquietudine e pericolo che vanno focalizzate attenzione e impegno senza dimenticare che esse andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato; e senza soprattutto cedere alla diffusa attuale tentazione di ragionare su una generale «deriva razzistica». È questa tentazione naturale per chi vive di drammatizzazioni sovrastrutturali (mediatiche o politiche che siano); ed è una tentazione doverosa per chi deve ricordare grandi principi di civiltà collettiva; ma è una tentazione che ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui senza clamori si fa integrazione sociale di immigrati, processi e percorsi inadatti certo all’enfatizzazione mediatica e alla cultura degli eventi, ma incardinati saldamente in quella forza della lunga durata che ci ha sempre accompagnato nel tempo”.