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Agnelli a 20 anni dalla morte: era un grand’uomo, vi racconto perché, una testimonianza, fra terrorismo e minimalia

Giovanni Agnelli II, Gianni per i giornali e gli amici, l’Avvocato per le masse, morì 20 anni fa di questi giorni. Era nato 102 anni fa fra 2 mesi, il 12 marzo del 1921.
Era il nipote di Giovanni Agnelli il fondatore della Fiat. Entrambi senatori, il nonno di nomina regia, lui nominato dal presidente della Repubblica Cossiga.
Fu un grande uomo. Non lo fu tanto e non soltanto per il personaggio interpretato. La partecipazione di popolo al suo funerale fu testimonianza di qualcosa di mistico.
Giovanni Agnelli fu un grande della storia del nostro Paese soprattutto per il ruolo giocato come nocchiere di una Italia nave in gran tempesta quasi come ai tempi di Dante, in un tempo in cui uscivi di casa senza sapere se il supremo tribunale del terrorismo ti ci avrebbe fatto tornare. Nessuno era esente, non solo i padroni ma i moltissimi annoverati come loro servi. Nessuno che non vivesse nel Nord d’Italia in quegli anni può immaginarlo.

Credo che la Fiat sia quel pezzo d’Italia che più di tutti ha pagato col sangue dei suoi uomini la follia di quella gente. Dalla Fiat, sotto la guida di Agnelli, è partita però anche la riscossa che ha riportato l’Italia alla normalità. Agnelli tenne sempre la barra sull’orza, senza ambiguità né dubbi, solo senso di responsabilità e di essere nel giusto.

Sapeva di essere il sogno di ogni terrorista. Una volta chiese a un capo dell’antiterrorismo francese cosa sarebbe stato utile per la sua sicurezza e quello rispose: non basterebbe nemmeno un reggimento di cavalleria. Confortato, affidò la sua sicurezza alla irregolarità dei comportamenti. Mai la stessa ora negli spostamenti da casa all’ufficio, partenze improvvise per l’estero, mancato rispetto dei semafori, contromano quando possibile, cosa che avveniva regolarmente a Roma, nel tragitto sull’Appia antica percorso contromano. 

Un mattino lo accompagnavo all’aeroporto, lui al volante, io accanto. Erano le 7 del mattino di sabato, a Torino il deserto. Il semaforo si era fatto verde, lui non si muoveva. Gli dico: Avvocato, è verde. E lui: Appunto per questo non mi fido.
Ma Agnelli fu grande anche per le piccole cose.
Ne sono testimone. Un giorno del 1979, in pieno caos di conflittualità sindacale e terrorismo, era stato ucciso in quei giorni Carlo Ghiglieno, durante una conferenza stampa mi lascio scappare una battutaccia contro il sindaco di Torino Diego Novelli. I giornalisti riportano le parole ma non chi le ha dette. Cane non morde cane.

Tenace, Novelli lo scopre dopo nove mesi. Era fine luglio. Si precipita in Fiat e chiede all’Avvocato il mio licenziamento. Agnelli lo tranquillizza, lo congeda e mi manda a chiamare. Racconta ridendo l’accaduto. Poi la battuta. Sapeva che sarei andato in vacanza nelle Filippine. “Meno male che adesso va nelle Filippine, là si che le insegnano le pubbliche relazioni”. Erano i tempi del dittatore Marcos.

Con un Romiti o un De Benedetti sarei già stato licenziato.

Non era volgare né rancoroso. Disse sì quando gli prospettarono di affidare la guida della Montedison (cosa che poi non avvenne) a Carlo De Benedetti, che lui stesso aveva allontanato dall’azienda nell’estate del 1976. “È il più bravo di tutti” motivò. 

Una ventina d’anni dopo (lasciai la Fiat nel 1984) incontrai il favore degli astri. Non lo sentivo da tempo. Mi telefonò per dirmi che era contento della mia fortuna e che lo meritavo.
Romiti, stizzito per il mio abbandono, mi obliterò, proprio come in Vaticano o nell’Urss.

Cresciuto in un mondo di privilegio dinastico, Giovanni Agnelli ne godeva immensamente. Ma forse per questo aveva ammirazione e rispetto per la forza di carattere di chi era diverso da lui. Questo spiega il fascino esercitato su Agnelli da un personaggio come Luciano Lama. E anche il rispetto dei due fratelli Agnelli verso il Partito comunista. Un altro punto fermo nella grande strategia dell’Avvocato fu la legittimazione del Pci rispetto agli Usa.

Lo scoprii quando una giornalista americana, Lally  Weymouth, figlia di Catherine Graham, proprietaria del Washington Post, venne a Torino per intervistarlo. Amica di famiglia, era ospite di Agnelli nella sua villa in collina. Io la accompagnai in giro per le fabbriche, a Mirafiori evitammo uno spruzzo di giallo da un operaio della verniciatura infastidito dalla nostra presenza. Ma l’intervista si svolse fuori dal controllo che di solito mi veniva affidato. 

Seppi cosa l’Avvocato aveva detto solo qualche settimana dopo, quando arrivò dall’Inghilterra il testo ripreso dal magazine del Telegraph. Erano parole esplosive in un tempo in cui si definivano i contorni del compromesso storico e il terrorismo divampava. Inorridito chiamai l’Avvocato che mi placò dicendomi: dobbiamo convincere gli americani che il Pci è un’altra cosa dall’Urss.

Onorava Torino e il Piemonte come categorie superiori dello spirito umano. Per lui essere piemontese era un lasciapassare assoluto. Non so se parlasse la lingua correntemente, ma le frasi che pronunciava, spesso citando il nonno, le diceva in modo impeccabile, nel modo in cui gli aristocratici di ogni regione parlano il loro dialetto.

Amava il privilegio e i vantaggi che comportava. Ma ammirava il cognato Carlo Caracciolo, diventato grande editore partendo dal sottoscala perché non da eredità ma da duro lavoro aveva ottenuto il successo.

L’Avvocato aveva un senso della realtà molto acuto, godeva del privilegio, era consapevole della responsabilità che gli veniva dall’essere numero uno di una delle più grandi aziende europee e mondiali, con molta autoironia si chiedeva: se non ci fosse stato Valletta a accumulare oggi noi cosa redistribuiremmo.

E sospirava anche: Se ci fosse mio nonno, cosa farebbe. Il nonno visse e sopravvisse all’ondata rossa del 1919. Successivamente impresse all’azienda uno sviluppo multicentrico oltre le automobili: Se ci fosse mio nonno saremmo già sulla luna, sospirava il nipote. Sulla scrivania di mio nonno c’era solo una matita rossa e blu. Si limitava a chiedere, in piemontese: Ai son i sold, ai son nen (ci sono i soldi o non ci sono?).

Giovanni Agnelli II amava andare a Parigi e New York, suo nonno preferiva Berlino. A Giuseppe Gabrielli, creatore del primo aereo italiano in metallo ad appena 29 anni, progettista del G91  e del G222, consigliò di andare in vacanza a Berlino ai tempi di Weimar e lo raggiunse anche per qualche giorno.

La vita militare lo aveva segnato, forse perché lì il privilegio non pesava nella vita quotidiana, si sentiva uno come tutti o quasi. Una volta, andando in elicottero da Torino a Villar Perosa, nei pressi di Pinerolo, mi indicò eccitatissimo una scarpata che da giovane cavallerizzo scendeva a cavallo con grande rischio.

Un’altra volta doveva andare a New York col Concorde. Io perennemente ritardatario, gli feci perdere la coincidenza a Parigi e dovemmo adattarci a un percorso di 8 ore invece di 3. Fu un incubo. Non mi rimproverò mai, non me lo fece mai pesare. Ma per tutto il viaggio, appena vedeva che cedevo al sonno, mi svegliava per dirmi qualcosa. In quella occasione mi raccontò di comue aveva sventato il tentativo del nonno di non farlo partire per la guerra. Agnelli usò Edda Ciano, la figlia di Mussolini, di cui parlava con ammirazione (e con disprezzo del marito) per ottenere l’arruolamento. “Quando mio nonno lo scoprì si arrabbio tantissimo”.

Era il senso del dovere e della Patria. Mio zio piemontese era comunista ma non diede ascolto al vicino di casa fascista che disse a suo figlio mio cugino in procinto di partire per la Russia-Ucraina: buttati giù dal treno, rompiti una gamba ma non ci andare. Mio zio, tanto coinvolto nella propaganda antifascista da essere convocato dalla polizia politica nella caserma delle torture di Genova, non volle sentire ragione. Mio cugino partì e non tornò mai. Così erano i piemontesi di una volta.

C’è un dettaglio infimo nella agiografia di Giovanni Agnelli che mi viene da ricordare. Quello dell’orologio sul polsino della camicia, evidenziato nel 1974 da un articolo su Epoca. Anche io avevo l’abitudine, per comodità e anche per non logorare il bordo del polsino. L’avevo imparato da bambino, a Genova, accompagnando mia madre in un mercatino rionale, osservando uno scaricatore. Arrivai a vivere a Torino proprio al tempo dell’articolo. Cominciarono gli sfottò, dovetti rinunciare a quello che sembrava un gesto di piaggeria.

Sempre sul piano delle frivolezze non si può trascurare due contributi importanti allo stile maschile: le camicie e le scarpe.
Agnelli fu il primo a portare in Italia le camicie button down, col colletto floscio fermato da bottoni sulle punte. Oggi è di uso comune, all’epoca erano le camicie di Oxford azzurro che comprava da Brooks Brothers a New York.
Le scarpe che portava l’Avvocato erano quelle tipo para-boots allacciate sopra la caviglia o, in alternativa, le car shoes, quei mocassini con i chiodini di gomma ottime per la guida, che, con l’abile promozione di Montezemolo, furono la fortuna di Diego Della Valle.

Grande uomo fu anche, in modo diverso ma altrettanto importante, suo fratello Umberto, nato 16 anni dopo di lui, morto un anno dopo. Fu un uomo sfortunato, nella vita e nella discendenza. Fu persona di grande sensibilità, come dimostra questo fatto. Umberto Agnelli era  stato rimosso dal fratello Gianni, che l’aveva sostituito con Cesare Romiti nella carica di amministratore delegato della Fiat, per ordine di Cuccia, vero dominus della grande industria italiana in quegli anni.

La posizione di Cuccia non era insensata. Consapevole dello scontro che stava per scatenarsi fra azienda e sindacato, nel vuoto dei partiti, Cuccia temeva che una sconfitta avrebbe trascinato anche la famiglia principale azionista. Con Romiti, fossero andate male le cose, si sarebbe ripetuto il modello 25 luglio. Così me lo spiegò, pur senza riferimenti storici, lo stesso Avvocato.

Bene, quel medesimo giorno che veniva diciamo pure brutalmente estromesso dalla partita della vita della Fiat e anche dell’Italia, Umberto Agnelli si fece portare dall’autista presso un famoso gioielliere di Torino, Fasano, e comprò un regalo per me, ultima insignificante ruota del carro: un cestino d’argento con sul coperchio una volpe dormiente tutta in filo d’argento. L’oggetto aveva un significato preciso, legato al mio lavoro nell’ufficio stampa. Chi di noi lo avrebbe mai fatto?
Umberto Agnelli nutriva una devozione profonda per il fratello maggiore, al di là di ogni possibile diversa visione delle cose, biologicamente naturale in due uomini formati in epoche divise dal displuviale della guerra.
Entrambi adoravano Luca Montezemolo, unico in un mondo di sicofanti a dire la sua con schiettezza e lealtà. Con questa leva, Montezemolo riusciva a metterli d’accordo.
La lealtà dell’Avvocato verso Montezemolo testimonia la stima e la fiducia, fino alla fine, verso una delle persone più capaci che ho conosciuto. Credo di non essere in questo accecato dalla gratitudine per la persona cui devo di più al mondo. 
Giustamente Montezemolo diventò, dopo i due fratelli (intervallati da Romiti), presidente della Fiat. Ha fatto cose egregie, molte di più ne avrebbe fatto se fosse stato più fortunato.

Ho deciso di scrivere queste righe dopo molte perplessità. In occasione di questo ventennale ho letto un po’ di cose, spesso banalità sinistresi. Così ho deciso di dire la mia.
Molto alta, invece, l’intervista del nipote John Elkann, figlio della figlia Margherita, ultimo presidente della Fiat prima della fusione con Peugeot.
John Elkann ha superato il nonno in una impresa che all’Avvocato non riuscì per ben due volte, con la Citroen negli anni ‘60 e con la Ford nei ‘90. L’impresa è stata quella di avere salvato la Fiat, e con la Fiat un pezzo d’Italia, facendola confluire in una azienda di dimensione mondiale.

La retorica patriottica incrociata con quella sinistroide non gliene renderà merito. Per me John Elkann si è già conquistato il suo posto nella storia.
Tuttavia il confronto fra nipote e nonno per ora si deve fermare qui. Le condizioni ambientali in cui oggi opera un imprenditore in Italia non sono certo ideali ma certo non sono paragonabili con quelle degli anni ‘60, quando Giovanni Agnelli subentrò a Vittorio Valletta nella presidenza della Fiat.
Si era fermata la prima spinta del boom, la cavalcata della industria italiana dopo il disastro della guerra e oltre la miseria autarchica, proletaria e fasista di Mussolini.
Nelle grandi aziende i rapporti fra padroni e lavoratori si erano fatti aspri. Il sindacato agiva secondo varie logiche. La prima era ottenere una più equa distribuzione del reddito accumulato negli anni della crescita. I risultati furono ottimi.
Al punto da togliere spinta a un altro obiettivo che si inserì forse fin dall’inizio, quello della rivoluzione.
Valletta pianse al primo sciopero, così mi ha raccontato Umberto Agnelli. I grandi imprenditori italiani non erano preparati alla durezza dello scontro. Il Fascismo e poi il boom avevano agito da anestetico. Le grandi imprese erano in prima linea. La convergenza fra guerra di classe e pauperismo cattolico fu devastante: il ‘68 in Francia durò un mese, da noi non è mai finito.
Piccolo è bello era lo slogan di quegli anni. Col piccolo imprenditore, spesso lui medesimo di estrazione operaia, era più facile capirsi e tante altre cose. L’esistenza di tre grandi sigle sindacali (4 alla Fiat) complicava ulteriormente il quadro.
Il Pci fu all’origine della spinta rivoluzionaria iniziale. Fu però anche il primo partito a rendersi conto della crisi, del fatto che Fiat non disponeva di risorse inesauribili, che la rivoluzione avrebbe travolto anche il partito dei lavoratori medesimo.
Erano anni duri, di fuoco, presto sarebbero stati di piombo.
I due fratelli Agnelli tennero la barra ferma. Giovanni Agnelli seppe resistere a ogni tentazione di abbandono.
Molto merito fu di Umberto ma l’ultima decisione era sempre la sua.

In quegli anni duri e tormentati, Giovanni Agnelli non taceva davanti agli scempi del regime democrstiano. La sua costante polemica intrisa di etica e moralità gli valse l’odio feroce di una parte della Dc, in particolare di Amintore Fanfani. Fanfani era convinto che l’Espresso, regalato da Adriano Olivetti a Caracciolo per fare uscire l’azienda di Ivrea dal cono d’ombra democristiano, fosse il braccio armato di Agnelli nell’informazione e che Agnelli ne fosse il socio occulto. 

Gliela giurò e gliela fece pagare. Esattaemente mezzo secolo fa, ai tempi della grande crisi petrolifera, la Dc operò per tenere bloccato il prezzo delle automonili in Italia, che all’epoca era soggetto a autorizzazione governativa. Una ventina di mesi di blocco dei prezzi in epoca di inflazione al 20%, aprì un divario rispetto alla concorrenza europea che probabilmente non si è più colmato.
Anni dopo Cesare Romiti usò la concessione dell’adeguamento automatico delle retribuzioni alla inflazione, la scala mobile, come simbolo della debolezza dell’Avvocato.
Sarebbe stato bello vedere Romiti al suo posto: “Minacciarono di occupare Mirafiori, cosa potevo fare?” mi disse l’Avvocato.
(La scala mobile fu abolita negli anni ‘90 e fu uno dei contributi decisivi, insieme con la fine del terrorismo, alla ripresa nazionale dato da Pci e Cgil. Quest’ultima pagò un prezzo molto alto in termini di consenso).
Romiti, uomo di straordinaria quanto intermittente generosità, dal canto suo non lo ho mai percepito come un vero duro”. Lo diventò dopo che Vittorio Ghidella, Carlo Callieri e Cesare Annibaldi piegarono i sindacati dopo un mese di occupazione della Fiat. Fino alla fine Romiti spingeva per un accordo qualunque anche al ribasso, forse con la segreta speranza di scaricare poi le automobili allo Stato. Niente di disdicevole in quelle circostanze.
Alla una di notte il sindacato crollò. In un lampo Romiti si appropriò del successo.
La sera dopo ero nel mio ufficio a Torino. Il tg delle 20 manda in onda una intervista a Romiti che devo ammettere era sfuggita al mio controllo. La sintesi era uno sfolgorante: “Abbiamo vinto”. Prendo il telefono e chiamo il mio capo, Luca Montezemolo. “Hai sentito quello che ho sentito io?”
In realtà la strategia per riportare l’azienda sotto controllo era stata elaborata nell’ufficio di Umberto Agnelli prima che Cuccia ne imponesse l’allontanamento. E approvata in quello dell’avvocato.
Fu un momento displuviale per la storia d’Italia. Prima c’erano Prova d’orchestra di Fellini, steward e hostess della Alitalia che insultavano i passeggeri, e soprattutto un fermento che fu brodo di coltura del terrorismo.

Published by
Marco Benedetto