Guariniello pensionato. Ricordo un giudice coraggioso che…

Raffaele Guariniello in udienza. Sembra sommerso dalle carte, prodromo del male della prescrizione

ROMA – Il pm di Torino Raffaele Guariniello ha presentato la lettera di dimissioni dal suo incarico. Era in scadenza di mandato a fine anno ma lascerà l’incarico subito dopo Natale. Raffaele Guariniello, 74 anni, una vita in magistratura consacrata all’impegno in difesa della saluto e dell’ambiente, è fra gli 84 che il Csm ha messo in pensione per i limiti di età anticipati da 75 a 70 anni. Per tutti l’ultimo giorno di lavoro è il 31 dicembre, ma Guariniello, con il suo gesto, ha voluto sottolineare anche in questo caso la sua indipendenza, senza aspettare gli ordini superiori e anche senza accodarsi ai ricorsi che hanno già iniziato a arrivare fino al Presidente della Repubblica.

Guariniello è stato intervistato per Repubblica da Ottavia Giustetti. Come si può leggere qui sotto, ne emerge un personaggio a testa alta ma non arrogante, dignitoso. Affida ai lettori un messaggio che angoscia. È la “malattia della prescrizione”, che avvelena il sistema, manda impuniti molti criminali, corrode la motivazione per condurre indagini sapendo che forse non serviranno, dà una base etica a quella forma di giustizia popolare che è la carcerazione preventiva. Non è che la malattia si può curare allungando i tempi della prescrizione: vivremmo senza certezza di nulla, in una specie di Medio Evo. La terapia la vede Guariniello nei mezzi di cui dotare l’apparato giudiziario, degi uomini da aggiungere, non invoca, forse per pudore verso i colleghi, un po’ di produttività in più. Si limita a constatare le date a cui sono fissate le udienze.
Guariniello dice che c’è, nel sistema giudiziario, la dove ci si occupa di sicurezza sul lavoro, dice lui, ma il tema è più complessivo, è forse il problema numero uno di questa Italia che sembra avere come modello più l’Argentina che la California,
“di nuovo un’inversione di tendenza. Gli incidenti mortali sul lavoro sono tornati ad aumentare: nei primi dieci mesi di quest’anno 2015 sono cresciuti del 15 per cento. Gli organi di vigilanza sono in crisi e i processi non riescono a fare giustizia. Io sono maniacale nel controllo delle sentenze di Cassazione: ogni settimana scorro quelle che mi interessano. È impressionante quanti processi finiscono prescritti. Restituisce un terribile senso di impotenza”.
Prima delle altre citazioni, vorrei aggiungere una testimonianza personale, vecchia di oltre 35 anni.  Me ne sono ricordato leggendo l’intervista, seguendo la vicenda dell’uscita di Guariniello. Costituisce una conferma, che emerge dal passato profondo, della indipendenza di giudizio di Guariniello. È una testimonianza indiretta, perché io non ho mai incontrato Guariniello.  Ma della vicenda che sto per ricordare e lo ebbe protagonista e arbitro io fui osservatore interessato.
Forse mi dilungherò un po’ ma è una storia che forse non è mai stata raccontata e penso che meriti, non solo per onore di Guariniello, ma per aggiungere una virgola alla storia di quei tempi.
Il 9 ottobre 1979 la Fiat licenziò, o meglio sospese come avvio della procedura, 61 operai. La motivazione era il loro
“comportamento non rispondente ai principi della diligenza, della correttezza e della buona fede”,
i loro
“comportamenti non consoni ai principi della civile convivenza nei luoghi di lavoro”.
I giornali fecero due più due e motivarono i provvedimenti col terrorismo. Per il sindacato, soprattutto la Flm, il sindacato di categoria, e più in generale per l’opinione pubblica fu uno choc. Fu uno choc, ricordo, anche per il Governo. Quando Umberto Agnelli informò della decisione presa, via telefono, il primo ministro Francesco Cossiga ci fu, da parte di Cossiga, un disperato tentativo di fermare il provvedimento. Aveva veramente paura del peggio.
Dal suo punto di vista, Cossiga aveva molte ragioni. In Italia si combatteva una battaglia della guerra fredda, il terrorismo era rampante, Aldo Moro era stato ucciso 5 mesi prima, a Torino molti uscivano di casa e non sapevano se li aspettasse un commando di Prima Linea: Carlo Casalegno era stato ucciso due anni prima, Carlo Ghiglieno 2 mesi prima.
La sensazione era sgradevole: se ti andava bene ti bruciavano la macchina, ti davano una mano di bianco dopo averti inseguito fra le linee di montaggio o fra le scrivanie. Se eri stato scelto, finivi come Casalegno o Ghiglieno. O come Guido Rossa, il sindacalista di Genova ucciso perché aveva isolato e denunciato un terrorista nella acciaieria Italsider.
Chi oggi si lamenta per quel tanto di irrequietezza e di violenza che ci irrita, chi se la fa sotto per un video minaccioso dell’Isis, dovrebbe tornare indietro a quei giorni che stavano mettendo in crisi definitiva l’Italia, che l’hanno comunque paralizzata sotto molti aspetti in modo irreversibile e ricordare che la ripresa dell’Italia, la fine della prova d’orchestra a tempo indeterminato ha avuto inizio con il coraggio di Umberto Agnelli, Vittorio Ghidella, Carlo Callieri per quei 61 licenziamenti, per il valore simbolico che assunsero, della volontà di continuare della Fiat e dell’Italia, senza farsi piegare non solo dal terrorismo ma da tutte quelle forme di violenza e disordine che ci facevano colare a picco.
Che poi la Fiat sia finita come è finita dimostra che il controllo della fabbrica è condizione necessaria ma non sufficiente perché una azienda vada bene, ma questo è un altro film. Qui la trama è quella di una Italia letteralmente sull’orlo del precipizio, spinta da una rivoluzione strisciante e permanente.
L’inversione di tendenza ebbe inizio con quei 61 licenziamenti che seguirono di pochi giorni l’uccisione di Ghiglieno e di 8 mesi l’assassinio di Guido Rossa a Genova (24 gennaio 1979). Con la morte di Rossa, il Pci capì che i terroristi non erano compagni che sbagliavano ma che avevano perso il controllo della mente e portavano alla rovina fabbriche e Paese. Tra i loro bersagli non c’erano più solo nemici della classe operaia, dirigenti industriali, capi del personale, poliziotti, carabinieri, secondini. Nel mirino c’erano tutti, anche i militanti del Pci e i dirigenti sindacali.
Gli italiani, molti dei quali inizialmente non trovavano così folli le motivazioni delle Brigate Rosse, si svegliarono dall’incubo anche se incubo non era, perché c’eravamo tutti dentro fino al collo, con le due Italie allora spaccate e lontane fra loro molto più di oggi.
Guariniello entra in scena quando la Flm, aiutata nella costruzione della causa da due giornalisti della Rai, uno dei quali fu Corradino Mineo, attuale senatore del Pd, ex direttore di Rai News e fustigatore morale di Matteo Renzi, denunciò la Fiat per violazione dell’art. 28, attività anti sindacale. Se ricordo bene la colpa era stata quella di avere dato la notizia dei licenziamenti.
Raffaele Guariniello all’epoca era pretore e i pretori, in quegli anni, erano un po’ delle pecore nere. Divisi dalle superiori gerarchie della magistratura anche da un gap generazionale, mettevano il naso dove non dovevano, le loro inchieste venivano spesso avocate dalle superiori autorità, non erano cosa gradita, ci voleva gente coraggiosa e Guariniello era uno di questi. Li chiamavano pretori d’assalto. Erano un po’ di fondi malmosi che venivano a galla, a conferma che se c’è del disordine c’è anche qualcuno che offre ragioni ai disordinati. Altrove il disordine è stato utile se non salutare lezione, da noi, passata la paura tutto si è ricomposto come prima, come possiamo constatare ogni giorno, come Guariniello riconosce oggi sconsolato.
La causa Fiat finisce a Guariniello. Molti in Fiat erano convinti di una condanna. Il pretore non era “amico”, il clima era caldo. Chi delle Relazioni Esterne della Fiat andò a deporre, da imputato, uscì dall’aula con i brividi.
Guariniello assolse la Fiat. Avrebbe potuto segnare una tappa della rivoluzione. Sarebbe stato per lui più facile condannae la Fiat, forse anche più in sintonia  con i suoi sentimenti. Invece se li fece tutti nemici, né per questo alla Fiat lo amarono di più, perché, dopo, non è che le sue inchieste siano state prove di sudditanza agli interessi aziendali.
Questo ho vissuto di Guariniello e ho avuto sentimento di raccontare.
Ora le altre parole, “dal retrogusto amaro”, raccolte per Repubblica di sabato 12 dicembre 2015 da Ottavia Giustetti, di  Raffaele Guariniello, della generazione di magistrati che sta andando in pensione
“esempio unico e irripetibile (molto criticato per la sua sovra esposizione mediatica)”.
Raffaele Guariniello, nella sua lunga carriera ha aperto 30mila inchieste; è stato il pm dei processi Eternit e Thyssen, del doping nel calcio. Ora va in pensione senza cercare proroghe, di cui non condivide
“il metodo, mi pare sia seguire strade contorte che non portano da nessuna parte”.
Al fondo ci sono amarezza, pessimismo. Un po’ sarà l’età, un po’ le divergenze dai colleghi, ma quello che pensa Guariniello è sotto i nostri occhi ogni giorno:
“Io, che sono sempre stato ottimista, guardo il sistema giudiziario e mi pare in forte crisi. Mentre scrivevo il rinvio a giudizio di un’inchiesta per malattia professionale, mi sono accorto che hanno fissato la prima udienza nel 2017. C’è qualcosa che non funziona, il nostro lavoro in moltissimi casi è diventato inutile”.
La malattia della prescrizione è sotto gli occhi di tutti. Ma da dove, se non dalle aule di giustizia, si può lavorare per guarirla?
“Ho in mente tante cose che si potrebbero fare. Prima fra tutte è tornare a dare risorse al sistema giudiziario. La crisi cui assitiamo è dovuta soprattutto alla mancanza di persone. E poi vedo dei giovani magistrati stanchi, diversi da come eravamo noi. Non so come si possa fare, ma credo ci sia bisogno di uno scatto di orgoglio”.
Ricorda Giustetti che una delle battaglie instancabili di Guariniello è stata quella per la sicurezza sui luoghi di lavoro e chiede: quale Paese lascia nelle mani dei giovani pubblici ministeri che erediteranno il suo posto? Qui ripeto le parole già citate sopra. Fanno paura:
“Molte cose sono cambiate in meglio, non lo nego. Però sono anche preoccupato perché ho notato, negli ultimi tempi, di nuovo un’inversione di tendenza. Gli incidenti mortali sul lavoro sono tornati ad aumentare: nei primi dieci mesi di quest’anno 2015 sono cresciuti del 15 per cento. Gli organi di vigilanza sono in crisi e i processi non riescono a fare giustizia. Io sono maniacale nel controllo delle sentenze di Cassazione: ogni settimana scorro quelle che mi interessano. È impressionante quanti processi finiscono prescritti. Restituisce un terribile senso di impotenza”.
Published by
Marco Benedetto