
Quella di Ezio Mauro, direttore di Repubblica, è una analisi abbastanza critica del del Pd dopo il risultato delle elezioni 2013. Non che tutto sia condivisibile nel suo editoriale, però è un dei suoi migliori tra i più recenti e merita di essere conservato.
Dà un contentino al popolo del partito democratica, quando sostiene ha vinto le elezioni, anche se per un umiliante scarto dello zero dicesi zero virgola 4 per cento rispetto a Berlusconi; mentre in realtà per vincere in politica, come nelle aziende, ci vuole la metà più uno e quindi il fatto di arrivare primo di un soffio non è una vittoria ma la consolazione di una sconfitta.
Poi però è spietato, quando ricorda che la coalizione Pd+Sel ha ottenuto la maggioranza dei seggi alla Camera
“grazie al Porcellum voluto dalla destra”.
È andata sempre così: Mussolini andò al potere con un premio di maggioranza, la Dc ci provò nel ’48 ma la “legge truffa” non passò per la fiera opposizione dei comunisti che poi, trent’anni dopo, quando stavano per fare il per fortuna nostra non riuscito sorpasso, probabilmente si mangiarono le mani per la potenziale occasione perduta.
Anche se è andata bene per la sinistra alla Camera, al Senato il Porcellum ha dimostrato di non esserlo tanto e la pericolosa ingovernabilità è anche un segno di giustizia o, comunque, di grande preveggenza del suo ispiratore, nuovo Mefistofele della Brianza.
Quel di cui Mauro, e con lui tanti di noi, non riesce a capacitarsi, è che, proprio alle prime elezioni dopo la fine, teorizzata, auspicata ma non avvenuta, del ventennio di Berlusconi, il Pd non è riuscito
“a imporsi come forza di governo alternativa a Berlusconi, ma anzi assiste alla resurrezione miracolosa del Cavaliere che gli sbarra il passo e sfiora addirittura la vittoria, al trionfo di Grillo che pesca abbondantemente nel suo campo con la sua proposta di rinnovamento della politica e sullo slancio diventa primo partito, all’afflosciarsi di Monti che doveva essere l’alleato di governo e che non riesce a compiere la trasformazione da bruco a farfalla, perché dal Premier tecnico non è sbocciato un leader politico”.
Qui l’immaginifico Mauro sbaglia le parole, dovrebbe scendere più terra terra e ammettere, dopo averlo sostenuto, probabilmente obtorto collo, che Monti è fallito perché non è stato capace e gli italiani non gli hanno voluto dare fiducia più.
Qui c’è un passaggio molto azzeccato, in cui Mauro imputa la ingovernabilità, prima ancora che ai numeri, al fatto che
“la politica tradizionale – tutta assieme, Monti compreso – non ha capito che la vera posta in palio nelle elezioni era quella del cambiamento, cioè una risposta radicale e concreta alle disfunzioni e alle inefficienze della nostra macchina istituzionale e politica, e soprattutto alla sfiducia drammatica dei cittadini nei confronti del sistema”.
Poi un po’ si perde, tra la “semina dell’antipolitica”, gli scandali e il malgoverno, “gli opposti populismi”, la “crisi reale” e i “fantasmi generici, come l’Europa, l’euro, la Germania, la Bce e le banche” e poi finisce nello stesso errore della propaganda di Monti, salvatore della patria che per salvarla l’ha quasi distrutta, quando parla di un
“vincolo europeo, che ci condiziona come Paese a rischio”,
cosa non vera in questi termini: c’era un problema di credibilità di Berlusconi clown internazionale, ma Tremonti, a sua insaputa o quasi, la via del risanamento l’aveva già fatta imboccare all’Italia un anno prima. Ma i luoghi comuni della ideologia sono difficili da smitizzare.
Severa e giusta la critica delle convinzioni agitate da Grillo:
“si scavano percorsi a breve, abitati da illusioni politiche, fantasmi culturali. Nazionalizziamo le banche, anzi chiudiamole. Ignoriamo lo spread, che importa se cresce? Non badiamo ai mercati, tanto sono un po’ pazzi. Se la Germania pretende troppo, usciamo dall’ euro”.
Si tratta, avverte Mauro, di
“sciocchezze che funzionano come false rassicurazioni, perché non esistono risposte banali a problemi complessi. Ma funzionano, come le false promesse sulle tasse che si possono restituire, i soldi che arrivano dalla Svizzera, il magnate-demiurgo che in ogni caso, se mancano i miliardi, li metterà di tasca sua”.
“La politica è in sede vacante [titolo dell’editoriale], e qualcos’altro di confuso, semplice ed elementare, consolatorio e primordiale ne ha preso il posto. Un negazionismo autarchico, insieme orgoglioso e compassionevole, che è un prodotto non secondario della crisi sociale del nostro tempo. I populismi diventano l’espressione compiuta ed organizzata di tutto questo. A destra, con l’incalzare sorridente e ideologico di Berlusconi. A sinistra (o meglio, in un luogo di pseudosinistra) con la predicazione comica e apocalittica di Grillo”.
C’è però una differenza “non da poco” tra Berlusconi e Grillo:
“mentre Berlusconi chiede un voto di autotutela, di protezione a breve, conservativo, esaurendo ogni antica spinta rivoluzionaria, Grillo al contrario è capace di intercettare non solo quella spinta ma una vera ansia di cambiamento, a cui si aggiunge una volontà di partecipazione, una disponibilità all’ingaggio”.
Qui Mauro è spietato con il Pd, anche si lancia in un linguaggio hi-tech che c’entra poco:
“Ed è sempre qui e proprio qui la sconfitta del Pd. Un partito nato con l’ambizione di essere moderno perché nuovo, forte se contendibile, aperto in quanto scalabile, pronto a mettere ogni volta in discussione i suoi assetti locali e nazionali e le sue leadership con la religione delle primarie, non può infatti essere messo fuori gioco dalla sfida per il cambiamento, soprattutto quando diventa il tema centrale delle elezioni e di questa fase”.
Passaggio di una forza notevole:
“Sembra quasi che la sinistra abbia rinfoderato tutta la spinta che veniva dalle primarie, che Bersani, battuto Renzi, abbia archiviato la questione cruciale del rinnovamento dei dirigenti, che il Pd abbia sotterrato i suoi talenti (frutto della partecipazione dei cittadini) invece di farli fruttare. Un riflesso di conservazione, di garanzia degli apparati e dei gruppi dirigenti, che già si spartivano posti di governo in organigrammi improbabili. Ma soprattutto la rinuncia a giocare la partita del cambiamento preferendo la battaglia navale delle alleanze, come se tutto fosse dentro il Palazzo e la vita non scorresse invece fuori”.
Ora il Pd pensa
“come forza di maggioranza alla Camera di avere il diritto dovere di fare la prima proposta per il governo. E pensa di farlo guardando ai grillini, e aprendo loro la strada per la presidenza della Camera. Ma anche qui, lo schema di gioco è vecchio e difensivo. Grillo non accetterà mai un’intesa di sistema, programmatica e di maggioranza, potrà dare l’appoggio a singole riforme, non di più. E allora la vera formula di sfida e insieme di ingaggio dei grillini è la partita del cambiamento, cominciando dalla politica e dalle istituzioni, con un pacchetto che comprenda il dimezzamento del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione drastica dei costi della politica, l’abolizione dei privilegi, una vera legge anticorruzione, il conflitto d’interessi, il cambiamento della legge elettorale”.
Qui invece siamo scivolati nel banale: dimezzare il numero dei parlamentari è pura leggenda, perché renderà ancor più difficile l’attività del parlamento nelle sue varie commissioni. Il costo vero non è quello della politica, ma quello dell’apparato statale e affini, dove si annida quella metà di italiani mantenuti dall’altra metà. Affrontare questi temi è come un osso gettato al cane, ma non si risolverà nulla. Quanto alla corruzione, abbiamo già tante leggi, non sarà una legge in più a farci diventare più onesti. In Cina, dove per i corrotti è prevista la pena di morte, non risulta che funzioni molto come deterrente.
Altra botta di ingenuità e retorica, quando parla di
“misure per il lavoro, col rigore combinato con l’equità, con la riduzione delle tasse per i ceti più deboli”
senza spiegare dove si vanno a prendere i soldi, senza giustificare il terrore di tanti ex comunisti verso la patrimoniale e l’oppressione fiscale.
Questa, dice Mauro
” deve essere la piattaforma non solo politica ma identitaria della sinistra dopo la sconfitta”.
Cosa ci aspetta? Instabilità, sfiducia dei mercati, nuove elezioni, come la Grecia.
Qui parte Pindaro e si perde in cielo:
“Perché non provare a riformare davvero la politica, subito e radicalmente, invece di aspettare che venga sepolta dall’onda dell’ antipolitica? È una convenienza per il Paese, un’opportunità per tutti, ma è una necessità per la sinistra. A patto di essere credibili, ecco il problema. E dunque di avere il coraggio di mettere subito e davvero in gioco tutto, dopo la sconfitta: leadership, premiership, partito e consenso elettorale pur di salvarsi l’anima e approdare nel mondo nuovo”.
Intanto, è bene ricordarcelo, nello stato in cui Monti ha ridotto l’economia italiana, per ridurre il debito pubblico di 20 miliardi di euro nel 2013, come ha accettato supinamente Monti, ci aspetta solo una strada: una nuova mega stangata. Altro che mondo nuovo, siamo proprio nei guai.
