ROMA – Repubblica, da dove viene, dove andrà. Il lungo articolo di Eugenio Scalfari su Repubblica di domenica 6 marzo 2016 manda vibrazioni ultra sensoriali mentre scandisce il
“nostro patrimonio ideale e civile” [che] ho ragione di credere resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente”.
È una specie di “Memoires d’outre tombe” stile Bignami, un tentativo di punto fermo in un momento displuviale, fra il lungo periodo in cui Repubblica e l’Espresso sono stati nell’orbita e nella proprietà di Carlo De Benedetti (dai primi anni ’80 e poi dal 1991) e il futuro con gli Agnelli. Carlo De Benedetti ha 80 anni, John Elkann ne ha 40. Scalfari ne ha quasi 92, la voce è sempre quella, un po’ più fievole forse ma la puntuta determinazione è sempre lì.
C’è un senso di Sunset Boulevard che lo pervade, una ineludibile malinconia. Quando Repubblica raggiunse il Corriere della Sera vendeva, in edicola, oltre 600 mila copie, il Corriere poco meno; poi ebbe inizio il declino di entrambi con la sinistra al Governo, direttamente o per “proxy” Berlusconi. Tante altre le cause, ma quello fu il fatto decisivo. Oggi le scommesse sono su quale dei due giornali scenderà per primo sotto le 200 mila copie medie vendute al giorno in edicola. Le altre copie, per i vecchi del mestiere, contano meno.
L’articolo è molto lungo, soprattutto la digressione su quello che fu il Corriere della Sera prima, durante e dopo Mussolini; un po’ più scarno sui dettagli di Repubblica; non sempre il ricordo di Scalfari coincide con la memoria di tanti, ma i ricordi sono di solito dettagli, quello che conta è come si “opera attivamente nel presente”. Per chi è appassionato della storia è una lettura affascinante.
L’articolo di Scalfari parte dal giro d’Italia che Scalfari fece nel 1975
“per presentare pubblicamente il futuro giornale quotidiano “la Repubblica” che sarebbe uscito nelle edicole il 14 gennaio del 1976, […] da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Reggio Calabria a Bologna, a Firenze, a Verona, a Padova, a Catania, a Genova, insomma dappertutto, concludendo al teatro Eliseo di Roma.
Dopo aver esposto le caratteristiche più interessanti del futuro giornale, a cominciare dal formato che era per l’Italia un’assoluta novità e il cosiddetto palinsesto, cioè la collocazione dei diversi argomenti, l’abolizione della classica terza pagina, il trasferimento delle pagine culturali al centro e una sezione economica che chiudeva il giornale, la parola passava al pubblico e le domande fioccavano. Quante pagine? Trentadue”.
Chissà, ha osservato qualche anziano lettore, se Repubblica fosse rimasta a 32 pagine, non si fosse fatta prendere dal titanismo e dal gigantismo, chissà oggi…
Prosegue il racconto di Scalfari:
“Quali sono i temi esclusi? Le cronache locali, la meteorologia, lo sport. Anche lo sport? Sì, anche lo sport. Ed infine: qual è l’obiettivo editoriale? Superare tutti gli altri giornali. Anche il “Corriere della Sera”? Sì, anche il Corriere, anzi l’obiettivo è proprio quello.
“Il pubblico accoglieva quest’ultima risposta da un lato ridendo e dall’altro applaudendo. E poi, giù il sipario.
“L’inseguimento durò esattamente dieci anni: nel 1986 raggiungemmo e superammo il Corriere nonostante che, sotto la direzione di Piero Ottone, avesse raggiunto il massimo delle sue vendite”.
“Dieci anni sono appena un baleno per superare un giornale che esisteva esattamente da cent’anni quando Repubblica vide la luce.
“Quando nacque Repubblica c’era Piero Ottone alla direzione del Corriere; ma vent’anni prima era già nato l’Espresso, il settimanale “genitore” del quotidiano. E l’Espresso aveva già messo sotto tiro la stampa quotidiana, la sua formula, i suoi valori, tutti sotto l’influenza del Corsera. Sicché la polemica tra il nostro gruppo e il Corriere e il resto dei quotidiani fatti a sua somiglianza, non è cominciata quarant’anni fa ma sessanta. Solo La Stampa di Torino era del tutto diversa dal Corriere, e Il Giorno di Milano, che però aveva già perso una parte della sua iniziale brillantezza.
“Questo fu il teatro nel quale i due gruppi si scontrarono. […]
Noi di Espresso-Repubblica, siamo sempre stati liberal-democratici. E se volete altre ma equivalenti definizioni, siamo stati innovatori con l’ancoraggio del bene comune, della giustizia sociale, dell’eguaglianza dei punti di partenza, cioè dare a tutti i cittadini e soprattutto ai giovani le stesse possibilità di misurarsi con la vita.
“Questo significa liberal-democratico che è la definizione politica dei due grandi valori di libertà ed eguaglianza, mettendone secondo le circostanze l’accento a volte più sulla libertà e a volte sull’eguaglianza, purché l’altro valore sia sempre presente e mai dimenticato.
“Questo diversifica i due gruppi editoriali e le due opinioni pubbliche che sentono l’appartenenza all’uno o all’altro.
“Noi non siamo mai stati un partito, ma sempre abbiamo avuto noi stessi, cioè i valori che noi sosteniamo, come punto esclusivo di riferimento.
“Sono stati di volta in volta alcuni partiti o alcune correnti di quei partiti, ad avvicinarsi a noi, ma non è mai avvenuto il contrario. Spesso è capitato che fossero con noi Guido Carli quando era governatore della Banca d’Italia e Antonio Giolitti, comunista prima e socialista dopo la crisi di Ungheria repressa nel sangue dalle truppe sovietiche. Oppure Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, oppure Beniamino Andreatta, oppure Ciriaco De Mita.
“Noi siamo sempre stati laici, fautori della libera Chiesa in libero Stato, ma molti democristiani sono stati vicini a noi e si sono battuti di conseguenza ed alcuni comunisti hanno modificato la loro ideologia non certo per merito nostro, ma con noi si sono trovati a loro agio.
“Questo è stato ed è il nostro patrimonio ideale e civile. E questo ho ragione di credere che resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente garantendo libertà e giustizia sociale”.