“Stabilità” parola chiave della politica, ai tempi di Diocleziano come ai nostri

I tetrarchi in una scultura conservata nella Basilica di San Marco a Venezia

ROMA – Annunciando la presentazione del libro “Diocleziano”, dedicato all’imperatore romano che allungò la vita dell’impero di Occidente di due secoli e perseguitò i cristiani tanto sistematicamente da diventare per la Chiesa un simbolo del male, Mario Ajello ha individuato nella “stabilità” la parola chiave dell’agenda politica di due mila anni fa. I problemi, si può dedurre, sono sempre gli stessi.

La presentazione è stata fatta il 30 settembre 2014, in una sala dei Musei del Campidoglio a Roma. C’erano  lo storico  Umberto Robertoautore del libro (“Diocleziano”, editore Salerno, 387 pagine, 24 euro),  l’ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli, lo storico Alessandro Barbero e, totalmente inatteso in mezzo a quegli intellettuali di professione, Francesco Gaetano Caltagirone, uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia, editore del Messaggero di Roma e Mattino di Napoli

Sullo stesso Messaggero, Mario Ajello aveva scritto, il giorno prima:

“La stabilità. La politica senza grilli per la testa. Il mix tra forza militare e capacità diplomatiche, che portò a una pace favorevole e lunga. Il non attaccamento alla poltrona, che lo spinse – primo e unico esempio tra gli imperatori romani a fare questa scelta volontariamente – a ritirarsi dalla carica, il primo maggio del 305, rifiutando gli inviti a riprendere il potere nel caos politico che seguì alla sua abdicazione. Tutto questo, e molto altro, ha rappresentato Diocleziano”.

Per questo Diocleziano si inventò la tetrarchia, un complesso sistema di designazione dei vertici dell’impero, con due co-imperatori, Augusti, e due vice, Cesari, designati attraverso una scelta dall’alto, sistema elitario, aristocratico ma non di classe. La vecchia classe dominante di Roma, ancora immensamente ricca, aveva perso peso politico a favore delle classi emergenti: finanzieri e militari di basso livello (anche prima i militari erano politicamente pesanti, ma i vertici dell’esercito e i vertici della religione erano riservati alla nobiltà, come poi è tornato a essere fino al 1915).

Per tenere insieme un impero steso su tre continenti, le sole 20 famiglie che lo avevano costruito non bastavano più, in un’epoca senza internet e nemmeno fax e telefoni, quando si andava a piedi o a cavallo e per mare d’estate. Diocleziano è un simbolo di quella mobilità sociale determinata dal bisogno di talenti, proprio come oggi: figlio di un ex schiavo di un senatore romano, militare di carriera da soldato a centurione  a generale.

Edward Gibbon, autore della monumentale “Declino e caduta dell’impero romano”, paragonò, per grandezza, Diocleziano all’imperatore Augusto.

Mario Ajello elabora:

“C’è chi, nella nuova pubblicistica su Diocleziano, lo definisce «l’autocrate riformatore». Chi invece lo chiama «l’imperatore guerriero». Mentre tende a diventare più problematica quell’immagine da ricordi ginnasiali che legava Diocleziano soprattutto alla persecuzione anti-cristiana. Che naturalmente ci fu, è ben raccontata sulla scorta di ampia documentazione nel libro di Roberto ma già il grande antichista Sante Mazzarino consigliava di metterla in una luce più profonda”.

Secondo Sante Mazzarino,

“il genio di Diocleziano aveva intuito l’inutilità di quella lotta [contro il cristianesimo] ma gli uomini di cultura intorno all’imperatore pensavano che ancora si potesse e si dovesse tentare”

una repressione dura, durata ben oltre l’abdicazione di Diocleziano del 305 e protrattasi per altri sette anni.

Edward Gibbon, ricorda Mario Ajello,

“aveva dato a quella lotta un significato tutto politico. Il proselitismo cristiano – a parere dello storico – aveva raggiunto la gran parte delle province dell’impero ed era penetrato in profondità nell’esercito, cioè nell’unica e fondamentale base del potere imperiale, e avrebbe scatenato il rischio di segare il pilastro della sovranità di Diocleziano.

“L’editto sui prezzi per non farli crescere troppo; la separazione tra amministrazione civile e quella militare, rafforzandole entrambe; la condivisione del potere con i Tetrarchi (ma governò sempre lui); le guerre e le paci; le grandi opere a cominciare dalle Terme di Diocleziano, grandi il doppio di quelle di Caracalla; i conflitti contro i Germani e i Sarmati e contro il grande nemico, i Persiani; e via così.

“La densità della vita, della politica, dello sguardo globale (il limes danubiano, il limes africano, il limes renano, il fatto che visse non a Roma ma a Sirmio in Serbia, ad Antiochia in Siria e in Turchia nell’attuale Izmir) di questo imperatore figlio di uno schiavo di un senatore romano, poi diventato liberto, si riflette dettagliatamente nella ricchezza dello studio”

di Umberto Roberto.

“Una questione centrale, per capire il significato del governo di Diocleziano, è quella dei poteri del Senato.

“Uno storico insigne come Luciano Canfora la riassume così: «La scelta di non chiedere nemmeno l’avallo, o la legittimazione, del Senato era un modo drastico, ma efficace, di far comprendere all’aristocrazia senatoriale il cambio d’epoca in atto. Ormai era l’esercito, in tutta la sua amplissima estensione e articolazione, il fondamento politico-sociale del potere imperiale».

I militari erano dunque il ceto sul cui peso sempre maggiore e sulla cui lealtà si fondava lo Stato. Le basi del potere, le fonti di legittimità, le tecniche di consenso di Diocleziano costituiscono del resto anche uno dei nuclei forti della monografia scritta da Roberto.

“Fu dunque più guerriero o riformatore Diocleziano? Fu una figura complessa e sfaccettata, che aveva capito che il cuore della politica era, ed è, la buona amministrazione. Anche quella fiscale. Fu lui ad avviare una razionalizzazione profonda del sistema della raccolta delle tasse. La quantità delle quali veniva attentamente calcolata ogni anno sulla base delle necessità (venne istituito per la prima volta il bilancio annuale) e sulla base delle risorse esistenti.

Fece questo e tutto ciò che doveva fare e poi, dopo vent’anni di governo, Diocleziano se ne andò a Spalato. Nel palazzo che si era fatto appositamente costruire, poco distante dalla sua città natale, Salona. E così dimostrò di avere una virtù, che si sarebbe rivelata sconosciuta alla gran parte dei suoi futuri colleghi politici: quella di servire lo Stato, di conoscere i limiti (progettuali e temporali) della propria azione e poi di ritirarsi, lasciando ai posteri come noi il piacere di interrogarci sulla sua storia”.

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Marco Benedetto