Il canadese Denis Villeneuve – già autore dell’acclamato La donna che canta, qui al suo esordio hollywoodiano– dà vita ad un thriller drammatico di eccellente fattura, decisamente insolito per la complessità della trama e l’accurata descrizione dei personaggi. Il regista preferisce infatti soffermarsi sull’analisi del dramma interiore vissuto dai protagonisti, indugiando sulla tragedia umana e la follia disperata, piuttosto che spingere l’acceleratore su ritmo e azione. In questo le atmosfere cupe e dilatate dipinte da Villeneuve avvicinano sotto molti aspetti Prisoners al capolavoro eastwoodiano Mystic River. La completa sfiducia nelle istituzioni e il senso di impotenza di Keller-Jackman sono gli stessi vissuti dal malavitoso Markum-Sean Penn. Ed anche la descrizione degli ambienti esterni, dove il freddo e la pioggia la fanno da padroni, non possono che rievocare la Boston raccontata da Eastwood.
Ma oltre all’efficace ricostruzione dello squallore urbano della provincia americana, Villeneuve è abilissimo a disseminare dubbi e ambiguità. E’ giusto che un onesto padre di famiglia, dinanzi al dramma più grande per un genitore, possa trasformarsi in un brutale carnefice? Può la fede in Dio confortare l’uomo nei momenti di difficoltà o soltanto procurare ulteriore sofferenza? Villeneuve non fornisce risposte allo spettatore ma si limita – e con estrema a bravura – a creare un puzzle perfetto, dove ogni frase o più piccolo particolare può rivelarsi essenziale per risolvere l’enigma del rapimento.
Il ritmo narrativo di Prisoners è per questo più vicino ad una pellicola drammatica – nonostante scene di estrema crudezza sullo stile di Seven o Il Silenzio degli Inncoenti – , dove il focus del racconto è inesorabilmente incentrato sui conflitti morali dei personaggi. Lo sguardo disilluso di Villeneuve diventa così una riflessione amara sull’american way of life, un’istantanea sulle indicibili contraddizioni della provincia americana – impossibile non pensare all’orco di Cleveland – dove il male può nascondersi sotto le fattezze del più insospettabile dei carnefici. Cast stellare, regia impeccabile basata sul complesso script di Aaron Guzikowski, fotografia di Roger Deakins da stroppicciarsi gli occhi. Due ore e mezza di pura tensione. Imperdibile. In assoluto, uno dei migliori thriller degli ultimi vent’anni.