ROMA – 21 dicembre 2012, -10 giorni alla fine del mondo. Staremo a vedere (si fa per ridere) ma intanto dovremmo rispondere a una domanda: perché in Messico, patria e origine della profezia Maya, l’Apocalisse prossima ventura suscita tutt’al più un alzata di sopracciglio e qui in Europa è presa maledettamente sul serio? Paura vera o psicosi virtuale, le località ritenute indenni all’Armageddon finale, sono prese d’assalto, come Bugarach sui Pirenei che ha dovuto chiudere gli ingressi ai non residenti, o più modestamente, la nostra Cisternino in Valle d’Itria. Senza contare il boom di conversioni religiose (e di confessioni per i meno probi). Un giovane filosofo ha la risposta pronta: “L’ossessione occidentale per la fine del mondo va messa in relazione con la sensazione della fine del “nostro” mondo, vale a dire il declino storico dell’Occidente”.
Michaël Foessel (ha scritto “Apres la fin du monde. Critique de la raison apocalyptique”), che insegna a Digione e a Berlino (è stato intervistato da Fabio Gambaro su Repubblica l’11 dicembre), ha il merito di precisare i termini razionali di questa ossessione irrazionale: una paura di fondo che nasce con la globalizzazione e la simultanea perdita di centralità e posizione dominante dell’Occidente. Di fronte alla prospettiva di un cambiamento radicale dell’ordine mondiale, rispetto alla previsione che i nostri valori, la nostra ricchezza vengano messe in discussione, reagiamo spingendo le corde emotive sul crinale dell’irrazionalità, tra misticismo e terrore, rivelando la nostra paura quale specchio del nostro “rifiuto ad accettare le conseguenze della mondializzazione”.
Fino al paradosso di consentirci, per farci coraggio e dividere le pene, una morte apocalittica ma “democratica”, un luogo assoluto per “condividere in modo egualitario qualcosa di molto singolare e non condivisibile, vale a dire la propria morte”. Un esorcismo di massa, quindi, moltiplicato all’infinito, aggiungeremmo, dalle più aggiornate tecniche di comunicazione, social network in testa. Ilo vantaggio è che il fenomeno non è una cosa nuova, basti pensare ai vari messianesimi, all’idea consolatoria del progresso, ai vari “tramonti dell’Occidente”, da Nietzsche a Spengler: il consiglio di Foessel ci sembra utilissimo: “la fine di un mondo non è la fine del mondo”.