“Poveri, ma bravi lo stesso”: la scuola italiana più democratica di quella inglese

ROMA – Tanto bistrattata e criticata la scuola italiana almeno un pregio ancora lo conserva, ai più poveri la strada per il successo è spalancata come a tutti gli altri. Chi è bravo, va avanti e la classe sociale di provenienza incide molto meno che in altri Paesi.

Gli inglesi, per esempio, tanto eccellono nel sistema universitario e tanto invece arrancano in quello scolastico. A guardare i dati dell’Organisation for Economic Cooperation and Development, su 65 Paesi sviluppati, la Gran Bretagna si piazza al trentanovesimo posto, mentre l’Italia è al diciottesimo sopra la civilissima Svizzera, la studiosa Germania, il produttivo Belgio e l’acculturata Francia.

Almeno in questo, complici forse anni di studio con grembiuli e tute per non fare distinzioni e creare invidie dovute ai vestiti più o meno costosi, gli italiani tra i banchi sono tutti uguali o quasi. Conteranno sì l’impegno, la simpatia, la dialettica con i professori, ma non quanti soldi ci sono dentro al portafoglio di papà (almeno non incide eccessivamente).

Il ministro Mariastella Gelmini è stata più volte messa sotto accusa per il suo progetto scuola che prevede tante sforbiciate e sacrifica, a detta di tanti, la qualità dell’insegnamento. C’è anche chi l’ha criticata per volere incentivare non una scuola di merito, ma d’élite. Eppure, finora, la scuola italiana è rimasta democratica, fino alla scuola obbligatoria.

Quella inglese invece è in crisi tanto come quella italiana (forse di più), ma a differenza del nostro caso le istituzioni sanno fare esplicitamente mea culpa. Il ministro dell’Educazione Michael Gove al Telegraph ha detto: “La nostra purtroppo è una delle scuole più indietro dal punto di vista della segregazione”.

In effetti, a differenza di Paesi industrializzati come Hong Kong, la Gran Bretagna non sa fare superare ai suoi alunni con disagi familiari la soglia di preparazione minima richiesta ai test di matematica e scienze.

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luiss_smorgana