ROMA – Andreas Lubitz, il copilota dell’Airbus A320 che si è schiantato sulle Alpi in Provenza, quel giorno non avrebbe neppure dovuto esserci su quel volo. A casa sua gli investigatori hanno trovato un certificato di malattia. Ne hanno trovati diversi, in verità, ma uno in particolare aveva la data 24 marzo, quella dello schianto. E hanno trovato, così le hanno definite, prove di “trattamenti sanitari”.
Trattamenti sanitari quali e per cosa? Quale malattia? Quella dell’anima chiamata depressione o qualcosa d’altro? Una malattia terminale diagnosticata a 28 anni può scatenare una sorta di reazione incontrollata che sfocia nel se devo morire io, muoia il mondo. Una diagnosi senza speranza, o anche solo il timore, la fobia di una malattia senza speranza. Questo può essere stato l’innesco della follia omicida di Andreas.
Lubitz, insomma, era malato. E in attesa di sapere con certezza quale medico e per quale malattia gli aveva imposto di rimanere a casa, alla vicenda dell’airbus si aggiungono altre piccole e inquietanti certezze. Di quelle che assemblano un insieme spaventoso: Lubitz tra il 2008 e il 2009 aveva sospeso l’addestramento perché era rimasto per diversi mesi in terapia psichiatrica, Lubitz era stato dichiarato “parzialmente inidoneo” al volo, Lubitz aveva di recente avuto una delusione sentimentale, Lubitz continuava a seguire una “terapia particolare”, Lubitz ha fino all’ultimo cercato di tenere nascosto alla compagnia per cui lavorava la sua malattia.
Se il quadro è questo è facile pensare che Lubitz avesse un piano di morte ben impresso in mente quando è salito su quell’aereo. Perché è andato a lavorare anche se avrebbe potuto e dovuto non farlo. E’ andato su quell’aereo, probabilmente, con già chiara in mente l’intenzione di farlo schiantare. Facile immaginare, ma non certo, che la malattia di Lubitz fosse psichiatrica, forse un seguito di quella depressione “burnout” che lo aveva tenuto lontano dagli aerei tra il 2008 e il 2009. Forse su quell’aereo è salito con la convinzione e la disperazione che non avrebbe mai risolto i suoi problemi. Ma è anche possibile pensare che Lubitz avesse altro, una malattia grave.
Qualcosa che lo obbligava a terapie costanti e che forse lo aveva condannato a morte. Deve aver pensato Lubitz, che se era condannato lui, allora poteva morire tutto il mondo. Perché una delle tremende motivazioni che innescano una simile follia è un meccanismo purtroppo noto, quello del se devo morire io… ed è un meccanismo che può essere innescato anche da una malattia terminale. Nella sua follia Lubitz ha trascinato contro una montagna 150 persone. Lo ha fatto respirando con calma, imperturbabile, mentre l’aereo si abbassava sempre di più, mentre il pilota cercava di abbattere la porta della cabina a colpi di ascia, mentre i passeggeri, che dopo alcuni minuti hanno realizzato, urlavano la loro disperazione. Una calma che solo una progettualità “razionale” della follia rende possibile.