Se Sergio Romano avesse scritto in anticipo l’articolo uscito il 25 luglio 2013 sul Corriere della Sera, in rievocazione del 25 luglio 1943, e Matteo Renzi lo avesse letto prima di chiedere udienza a Angela Merkel, forse Matteo Renzi avrebbe scoperto che il giudizio negativo dei tedeschi sugli italiani ha radici profonde, un po’ anche negli eventi successivi al 25 luglio 1943, e si sarebbe risparmiato una figura da infido machiavello, che un po’ si riflette su tutti noi.
Il fascismo, ha scritto Sergio Romano,
“cadde per la spontanea convergenza di alcune trame tessute al vertice dello Stato e soprattutto grazie alla collaborazione della vittima. Non vi sarebbe stato cambiamento di regime se il suo leader, il cavaliere Benito Mussolini, non avesse dato un contributo determinante alla propria uscita di scena”.
La situazione militare di una Italia in guerra da tre anni, senza mezzi e con una guida, quella di Mussolini, più politica che militare, era sempre più grave.Le truppe anglo-americane il 9 luglio erano sbarcate in Sicilia:
“Nessuno ormai poteva ignorare che gli Alleati, dopo la conquista dell’isola, avrebbero attraversato lo stretto di Messina e che l’Italia non sarebbe stata in grado di fermarli”.
“Il re, la corte, gli ambienti del fascismo «moderato», qualche monsignore e gli esponenti dell’Italia prefascista, fra cui Ivanoe Bonomi, giunsero tutti, più o meno contemporaneamente, alla conclusione che l’Italia sarebbe sopravvissuta soltanto se fosse riuscita a separare il proprio destino da quello della Germania”.
Lo sapeva anche Hitler, che degli italiani non si fidava e si preparava
“all’eventualità di un «tradimento» italiano, predisponendo un piano per l’immediata occupazione militare della penisola e la neutralizzazione delle forze italiane”.
Si arriva al 24 luglio 1943 e alla riunione del Gran Consiglio del Fascismo,
“il luogo dove sedevano attorno allo stesso tavolo tutti i maggiori esponenti del regime. Dino Grandi voleva servirsene per la presentazione di un ordine del giorno che avrebbe di fatto esautorato il Duce e restituito al re tutti i poteri e le prerogative che gli erano conferiti dallo Statuto albertino. Non sapeva come Mussolini avrebbe reagito nel corso della riunione e mise in tasca, prima di uscire di casa, una bomba a mano.
“I suoi timori non si avverarono. La riunione cominciò con una descrizione della situazione militare, che tutti gli intervenuti descrissero con tinte molto fosche. Vi furono parecchi giri di tavolo, durante i quali vennero presentati altri ordini del giorno e Mussolini cercò di controbattere gli argomenti di Grandi”.
Rievoca Sergio Romano: la presidenza della riunione da parte di Mussolini
“fu complessivamente impeccabile. Lasciò intravedere segni di stanchezza, ma ascoltò attentamente tutti gli interventi e al momento del voto dette la precedenza al documento preparato da Grandi. I «sì» furono diciannove (fra cui quelli di alcuni pilastri del regime: Bottai, Ciano, De Bono, De Vecchi, Federzoni), i «no» 7; e Mussolini riconobbe la vittoria dei suoi avversari dicendo: «L’ordine del giorno Grandi è approvato… Signori, con questo ordine del giorno voi avete aperto la crisi del regime… La seduta è tolta». Erano le tre del mattino del 25 luglio.
“Il giorno seguente Mussolini entrò nel suo studio di Palazzo Venezia alle otto e si comportò per il resto della sua giornata di lavoro come se nulla di quanto era accaduto nelle ore precedenti potesse incrinare la sua autorità. Era convinto di potere riconquistare il controllo della situazione o segretamente contento di avere perduto una partita da cui sarebbe uscito, comunque, sconfitto? Chiese un’udienza con il re per le cinque del pomeriggio.
“Certo non si aspettava in quel momento che Vittorio Emanuele III avrebbe chiesto le sue dimissioni. Fu colto di sorpresa? Poteva reagire, annunciare un appello al partito, invocare l’intervento della milizia, prospettare la possibilità di un intervento tedesco in suo favore. Si piegò invece docilmente alla volontà del sovrano e obbedì senza battere ciglio al capitano dei carabinieri che gli chiedeva di salire su un’ambulanza parcheggiata davanti alla villa. Tutto ciò che accadde da quel momento sino alla liberazione dal Gran Sasso dà l’impressione che Mussolini considerasse conclusa la sua avventura politica.
“Sappiamo come andarono le cose nei mesi seguenti. Il Governo Badoglio firmò un armistizio dietro le spalle della Germania, ma non riuscì impedire che i tedeschi, nel frattempo, presidiassero militarmente il Paese. Concordò con gli Alleati un’operazione militare per impedire che Roma cadesse in mano ai tedeschi e che la Germania consolidasse il suo controllo della penisola. Ma gli errori di entrambe le parti ebbero per effetto un’Italia spaccata in due e una lunga guerra civile.
“Oggi sappiamo che, dopo la riunione del Gran Consiglio, alcuni fedeli suggerirono a Mussolini un colpo di forza con l’arresto degli oppositori. A quei consigli il capo del fascismo, secondo le memorie di Carlo Scorza (allora segretario del partito), avrebbe risposto: «Arrestarli tutti? Occupare Roma con la divisione M e con l’aiuto eventuale dei tedeschi? Chiedere l’aiuto allo straniero per risolvere le cose interne? E il re come reagirebbe? La possibilità di una guerra civile alle spalle delle truppe schierate contro il nemico? (…) Soluzione da scartarsi anche nel caso dell’esistenza di una congiura, non solo perché delittuosa nei confronti dei soldati che combattono, ma soprattutto perché niente affatto risolutiva nel confronti del problema centrale, del come cioè trarre il Paese fuori da questa situazione… Tutto può essere considerato importante, e forse anche lo è, ma niente è essenziale come il dovere di trarre in porto la barca della nazione che fa acqua da molte parti».
“Se i buchi nella barca non li avesse fatti lui, verrebbe voglia di concludere che, fra i molti protagonisti del 25 luglio, Mussolini non fu il peggiore”.