Un monumento al criminale di guerra: Affile (Rm) celebra il “macellaio” Graziani

Forche pubbliche in Etiopia: la repressione brutale del vicerè Rodolfo Graziani

ROMA – C’era bisogno di spendere 130 mila euro della Regione Lazio per un sacrario dedicato al generale e ministro della guerra della Repubblica Sociale Graziani, nel paesino frusinate di Affile? Il sindaco Ercole Viri non ha dubbi e ancora ieri difendeva l’inaugurazione dell’11 agosto scorso al monumento nel parco di Radimonte che reca in alto le parole feticcio Patria e Onore. Difende il sacrario, onora la memoria di quello che fu considerato il macellaio d’Etiopia, insulta i giornalisti “militanti” targati a sinistra, disprezza quegli “ignoranti” dell’associazione partigiani.

Fedele al suo nome e cognome, l’indomito e virile sindaco, non si cura delle critiche che, strano ma vero (o forse è tutto il contrario) sono state flebili in Italia mentre dalla Bbc al New York Times, dal Daily Telegraph fino a una petizione on line lanciata dal sito specializzato www.change.org, è partito il tam tam per costringere il sindaco a tornare sui suoi passi. “Mayor of Affile: Stop celebrating fascist war criminals”: sindaco, questo l’appello, fermi le celebrazioni del fascista e criminale di guerra. La notizia è approdata sulle prime pagine di una quarantina di Paesi stranieri, dall’Algeria al Venezuela, generando un moto unanime di condanna.

Nulla da fare. Per Viri Graziani è un eroe italiano che merita di essere celebrato. Accanto ad altri grandi uomini, come Giorgio Almirante, cui il riconoscente paesino di Affile ha dedicato un busto in bronzo a maggio sempre di quest’anno. D’altra parte, la valorizzazione dei “figli” celeberrimi di Affile (1600 abitanti) fa parte di una strategia promozionale precisa: con un nome di primo piano come il Maresciallo d’Italia Graziani un giorno vedremo affluire migliaia di turisti nella nuova Predappio ciociara.

Ma quali sono dunque i meriti di Graziani? Innanzitutto, è stato colui che ha permesso all’Italia un ragguardevole primato: con l’uso dei gas di iprite sulla popolazione etiope nel 1935, siamo stai la prima nazione ad impiegare armi di distruzione di massa. Per sedare la resistenza locale fece sganciare 85 tonnellate di pirite nebulizzate in 5 mesi nell’aria respirata dalla popolazione inerme. Lo stesso gas che gli italiani avevano usato in Libia nel 1930 nel golfo della Sirte. L’iprite è altamente vescicante e, fissandosi nel terreno per settimane, nella migliore delle ipotesi provoca devastanti piaghe difficilmente guaribili, ma in alta concentrazione uccide in soli 10 minuti; penetra qualsiasi tipo di tessuto e può dare la morte anche lentamente, danneggiando il Dna e provocando tumori. Nessuno dopo di noi l’ha più impiegato.

In Libia, sin dal 1921, incoraggiò la pulizia etnica e allestì campi di concentramento: questo gli valse la promozione a governatore della Cirenaica. Altro gas, questa volta in Abissinia nel ’35: questa volta la comunità internazionale riuscì a costringere il duce a bloccare i bombardamenti. Nella qualità di vicerè di Etiopia si distinse per la brutale repressione, culminata in impiccagioni pubbliche, lager ed esibizioni di teste mozzate. Altro primato, questa volta anticipatore di una moda che avrebbe contagiato le giunte militari argentine quarant’anni dopo: il lancio dei prigionieri dagli aerei in volo.

Vittima di un attentato nel ’37 si procurò 350 ferite: una volta ristabilitosi la vendetta fu proporzionale all’offesa. di una dura rappresaglia che dai primi 300 etiopi uccisi indiscriminatamente sul luogo dei fatti portò alla morte di moltissimi altri (3.000 secondo gli inglesi, 30.000 secondo gli etiopi, 300 per gli italiani). Guarito, il generale Graziani ordinò il massacro al monastero ortodosso di Debre Libanos, ritenuto rifugio temporaneo degli attentatori: morirono 1.600 tra monaci e giovani catechisti, vescovo compreso (secondo le ultime ricostruzioni degli storici Angelo Del Boca, ma soprattutto dei colleghi inglese Ian L. Campbell ed etiopico Degife Kabré Sadik).

Un profilo, quanto a crimini di guerra, di tutto rispetto. Ma Viri non ci sta: mica un criminale di guerra, non è stato condannato a Norimberga, spiega. “Egli fu giudicato da un tribunale militare, da quegli stessi militari che aveva combattuto praticamente fino al giorno prima e che di certo non possono essergli definiti amici. Ebbene, dopo un’accurata istruttoria che niente trascurò e niente lasciò in ombra, il generale fu condannato per collaborazionismo con l’alleato tedesco”. Beh, un tribunale militare dopo la guerra gli affibbiò solo 19 anni, e solo per i crimini quale ministro della guerra di Salò. Se ne fece solo 2, visse fino al 1955. Alla domenica gli piaceva andare allo stadio, era tifosissimo della Lazio.

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Warsamé Dini Casali