ROMA – Per prevenire gli effetti del dissesto idrogeologico il governo pensa a svuotare i comuni a rischio. Il nuovo ministro dell’Ambiente Corradi Clini l’ha detto chiaramente: “Bisognerebbe iniziare a svuotare le zone in cui non si sarebbe mai dovuto costruire”. Svuotare, sgomberare, evacuare: come misura estrema di prevenzione è una proposta ragionevole, tuttavia, secondo un rapporto della Protezione Civile tre quarti dei comuni italiani è a rischio frana, la manutenzione del suolo non la fa nessuno, così come la messa in sicurezza e di piani stabiliti di emergenza non c’è traccia. Come uscirne?
In Italia sono a rischio 7 comuni su 10, 5.700 sugli 8.000 totali. Dove si porta tutta la gente che li abita? Dal registro dell’Ispra emerge che in tutto i comuni a rischio in Italia sono 5.708 su 8.101 (70,5%), di cui 2.940 con pericolosità molto elevata 2.940 (36%). Le frane complessivamente censite sono oltre 486.000 per un’area di 20.700 chilometri quadrati, pari a circa il 7% del territorio nazionale. Oltre 1.800 i punti critici segnalati lungo la penisola nel tracciato ferroviario e più di 700 in quello autostradale. Con Calabria, Liguria e Abruzzo tra le regioni più esposte.
Gli ambientalisti plaudono alla proposta. Non usano la parola svuotamento ma “delocalizzazione”: la sostanza non cambia, le persone dovrebbero lasciare il posto dove sono nati per vivere altrove. In questo caso, la sostenibilità ambientale si scontra con la sostenibilità economica, se non quella esistenziale di migliaia di cittadini. Gabriele Scarascia Mugnozza, capo dipartimento di Scienza della Terra dell’università La Sapienza di Roma, inquadra la questione: “Clini dice cose giustissime: ma dove trova i soldi per fare questo? E anche: dove trova le persone che hanno la forza di spostare i cittadini dal proprio territorio?”.
Chi ci ha provato ha dovuto abbandonare il progetto. Sostiene Paola Pagliara, capo del settore rischio idrogeologico della Protezione civile: “Di fronte al rischio idrogeologico non ci sono che due approcci possibili: o si svuotano gli abitati o si rimettono in sesto. Storicamente come Protezione civile abbiamo sempre avuto problemi con lo svuotamento. Il primo che facemmo, a Cavallerizzo di Cerzeto, nel cosentino, ci fece combattere con una resistenza strenua degli abitanti della comunità che lo abitava”.
Delocalizzare significa abbattere le case: in Italia, storicamente, è un’impresa buttare giù anche una piccola casa abusiva. E, soprattutto, chi si incarica di ricostruirle? Nuovi piani regolatori, gare di appalti, vincoli paesaggistici, ambientalisti che puntano i piedi: non sarebbe né rapido né indolore, oltre che onerosissimo. Senza contare la difesa del sottosuolo è affidata a leggi vecchi e superate e senza un a norma ad hoc sarebbe impossibile legare gli abbattimenti a ragioni inattaccabili legalmente.
Francesco Chiocci, ordinario di Geologia alla Sapienza di Roma, pone un altro problema: “La delocalizzazione è sicuramente un’opzione. Ma la verità è che non esiste una risposta univoca ad un problema tentacolare come questo. Penso, ad esempio, ai paesini costieri della Liguria: sono spesso costruiti su fondali dove non esistono alternative. Non ha senso dire che vengono svuotati, bisognerebbe dire che vengono chiusi per sempre. E ricostruiti altrove”. Un destino da new town come quello dell’Aquila per tutti i comuni a rischio frana?
Per restare alla cronaca drammatica degli ultimi giorni, facciamo l’esempio di Messina. La provincia di Messina ha la percentuale più alta di comuni in pericolo, pari all’84%: 91 amministrazioni suddivise in 79 per frana, 1 per alluvione, e 11 per frana e alluvione. E comunque i dati dell’inventario franoso relativi alla Sicilia sono sottostimati rispetto alla reale situazione di dissesto. I comuni a rischio di frana in Sicilia sono 313 su 390, pari all’80%; di questi 226 hanno un livello di attenzione molto elevato (58%). Secondo Legambiente e Protezione civile nel 91% dei comuni siciliani sono presenti abitazioni in aree a rischio idrogeologico (con il 40% che ha interi quartieri in aree ‘rosse’), nel 58% fabbricati industriali, nel 37% strutture sensibili e nel 28% strutture ricettive turistiche. A fronte di tutto ciò soltanto il 16% dei comuni svolge opere di mitigazione del rischio idrogeologico.