Sono in sette, vengono dalla Tunisia, e da quando sono stati sfrattati vivono in un garage. Quattordici metri quadri senza riscaldamento, in cui hanno stipato tutte le loro cose. Succede a Bologna, nei pressi delle vecchie officine Casaralta, note per ospitare altri immigrati senza casa.
La storia di Alì e della sua famiglia, la moglie Aycha e cinque figli, tra cui due bambini di quattro e otto anni, è, almeno all’inizio, quella di un’integrazione riuscita. La donna domestica, il padre ed i figlio maggiore operai nel cantiere per la Tav, i ragazzi che frequentano la scuola, l’alloggio in un appartamento ex-Iacp. L’affitto è un po’alto, ma non ci si lamenta, almeno finché ci sono i soldi. Ma questi vengono a mancare con la fine dei lavori per l’alta velocità e la chiusura dei cantieri. Alì ed i suoi figli cercano un altro lavoro, ma con la crisi è impresa disperata, ed anche il padrone di casa è irremovibile: se non pagano, devono andarsene.
Dopo lo sfratto, il primo tentativo è quello di ricorrere al Comune, ma le graduatorie per le case popolari sono lunghe chilometri. L’unica soluzione prospettata è quella di un alloggio provvisorio in un albergo popolare per Aycha ed i figli più piccoli. Ma anche questo va lasciato dopo dieci giorni. A questo punto, la proposta di un amico di famglia: trovare riparo nel suo garage. È meno di nulla, ma l’alternativa non esiste. Comunque, in quella che dovranno abituarsi a chiamare casa, non c’è posto per tutti. Così Alì si sistema in un furgone, e sua figlia Ana si fa ospitare da un’amica.
Dalla sua nuova sistemazione sottoterra, la famiglia lancia un appello: “Fateci lavorare”. A breve è fissato un incontro con i servizi sociali del comune: ma con le poche risorse in cassa, la soluzione del problema non è certa. Forse Alì ed i suoi dovranno appartenere ancora a lungo al sempre più numeroso popolo sommerso dei senza casa.
*Scuola di giornalismo Luiss
