ROMA – Braibanti, 1968: quando si finiva in galera e all’elettrochoc per omosessualità. E’ morto a Fiorenzuola d’Arda (Piacenza) Aldo Braibanti. I funerali si sono svolti ieri. Ex partigiano, filosofo, scrittore, artista poliedrico, regista, dirigente comunista e omosessuale dichiarato, Braibanti era stato al centro nel 1968 di un processo per plagio – reato introdotto nel Codice penale in epoca fascista – che aveva fatto scalpore e che si era concluso con la condanna a 9 anni di carcere.
Fu l’unica condanna della storia repubblicana basata su questo reato, che fu poi abolito nel 1981. Ma non parliamo del plagio autoriale: con questa accusa i magistrati di allora sanzionarono la sua relazione omossessuale con due giovani maggiorenni cui avrebbe “rubato” l’anima, nel senso di averne annichilito la volontà per i suoi turpi scopi.
La famiglia di uno dei due maggiorenni, cattolica e intollerante rispetto alle preferenze sessuali del figlio, trascinò in tribunale Braibanti che scontò 24 mesi in carcere (un record). Al figlio non andò troppo meglio: benché maggiorenne, venne rinchiuso in manicomio dai genitori, e “curato” con gli elettroshock. Del resto, la stessa corte che condannò Braibanti, oscillava nei suoi giudizi (ricorda Filippo Ceccarelli su Repubblica) tra l’evocazione di una presunta “malattia” all’individuazione di un “diabolico invasore di spiriti”, se non “la reincarnazione del demonio”.
Il reato di plagio, residuo di una cultura retriva cui il codice conferiva anacronistica legittimazione, fu abolito nel 1981.