Il ritrovamento del corpo senza vita di Elisa Claps ha riacceso l’interesse per Danilo Restivo, il primo sospettato del suo assassini. Restivo, condannato in appello ma solo per falsa testimonianza, ora è sposato e vive in Inghilterra. Il sospettato non parla e al suo posto risponde Fatima, la moglie: «Mio marito non c’é, non capisco cosa vogliate da lui, parlate con il suo avvocato. Abbiamo avuto già abbastanza fastidi».
Parlano invece alcuni vicini della coppia. Una signora, che chiede di non essere nominata, spiega: «Sono due settimane che non lo vedo. So che hanno studenti in affitto a casa loro, ma questo è tutto, non li frequentiamo tanto». La donna aggiunge che i due «hanno una telecamera davanti alla porta, da quando gli spedirono delle pallottole», ovvero nell’ottobre 2009.
Nella vicenda di Elisa Claps – scomparsa il 12 settembre 1993 – Restivo, da anni indagato dalla magistratura di Salerno per omicidio volontario della ragazza,«ha rivestito un ruolo, se non di protagonista, certamente di persona che avrebbe potuto e dovuto offrire una corretta informazione agli organi di polizia e al magistrato inquirente dei fatti e delle circostanze a sua conoscenza».
Così hanno scritto dieci anni fa i giudici della Corte di Appello di Potenza nella motivazione della sentenza con la quale il 28 gennaio 1998 lo stesso Restivo è stato condannato a due anni e otto mesi di reclusione (in primo grado gli erano stati inflitti nove mesi) per aver reso false dichiarazioni al pubblico ministero nel corso dell’ inchiesta sulla scomparsa della studentessa potentina.
Ora, dopo il ritrovamento nella chiesa della Trinità del cadavere di Elisa Claps, le motivazione di quella sentenza, nella quale sono state descritte “le bugie” – secondo i giudici – di Restivo, torna di stringente attualità. La condotta di Restivo è stata giudicata«particolarmente grave» per «il grave danno derivato all’ attività giudiziaria e, di riflesso, alla Claps e ai suoi familiari» e l’ elevazione della pena è stata motivata per la«tenace condotta menzognera dell’ imputato, anche dopo la commissione del reato, che – hanno scritto i giudici – continua a lasciarlo indifferente ai traumi dei familiari della vittima e all’ angoscia stressante di una madre che desidera avere quantomeno certezza della morte della propria figlia».
Secondo i giudici della Corte di Appello, quel 12 settembre 1993 Danilo Restivo ed Elisa Claps «certamente si incontrarono tra le 11.45 e le 12 all’ interno della Chiesa della S. Trinità» di Potenza, come il giovane ha dichiarato. Ma per i giudici Restivo ha mentito quando ha giustificato una ferita alla mano con una caduta in un cantiere di scale mobili in costruzione. I giudici, nella motivazione della condanna scrissero che la menzogna era «sintomo di inequivoco collegamento dell’ imputato agli eventi, allo stato non conosciuti, che interessarono» Elisa Claps.
«Decisiva ed insormontabile riprova della falsità»delle dichiarazioni rese da Restivo – si legge nella sentenza – è che «l’ imputato, avendo con particolare solerzia curato che restasse traccia dell’ orario in cui si era presentato al pronto soccorso (benché il fidanzato della sorella gli avesse fatto presente che la modesta entità della ferita non necessitasse delle cure del medico del pronto soccorso), si trova poi nella necessità di spiegare la causa della lesione. Di qui l’ esigenza di porsi in un luogo isolato (scale mobili di un cantiere chiuso la domenica), sì da non essere smentito da possibili testimoni e da ideare una caduta che servisse a spiegare come e perché una lamina acuminata si fosse infissa nella sua mano». Ma quest’ultima cosa, secondo i giudici, è «di sicura invenzione».
Se effettivamente Restivo, come ha raccontato, «fosse precipitato ‘a faccia in avanti’, proteggendo il viso con la mano per evitare la rottura degli occhiali, avrebbe potuto sì subire che la lamina si infiggesse nalla mano, ma questa, percuotendo il cemento, avrebbe dovuto subire vistose escoriazioni ed ecchimosi, che non sarebbero sfuggite in alcun caso all’ infermiere e al medico del Pronto soccorso dell’ ospedale, che suturarono la lesione prodotta dalla lama».