Il cittadino di un altro Stato membro dell’Ue residente in Italia e del quale sia stata chiesta l’estradizione in forza di un mandato di arresto europeo d’ora innanzi avrà il diritto di scontare la pena detentiva nel nostro Paese. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale bocciando la legge 69 del 2005 di recepimento del mandato di arresto europeo limitatamente alla ”parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche al cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia conformemente al diritto interno”.
A sollevare la questione dinanzi alla Consulta era stata la Corte di Cassazione, chiamata a decidere sul caso di un cittadino polacco condannato in via definitiva a 3 anni e sei mesi dalla Corte distrettuale polacca di Debica per rapina, uso di armi, violenza. I fatti risalivano al 2003, ma nel frattempo l’uomo si era trasferito in Italia dove risultava residente da tempo. La legge con cui il nostro Paese si è adeguata, cinque anni fa, alle disposizioni comunitarie sul mandato di arresto, consente che la pena o la misura di sicurezza possa essere eseguita in Italia soltanto ”qualora la persona ricercata sia cittadino italiano”.
La Corte Costituzionale ha bocciato questa previsione, ritenendola non in linea con recenti pronunce della Corte di giustizia europea e dunque con la limitazione di sovranità prevista dall’art.11 della Costituzione e con l’obbligo del legislatore statale e regionale di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario (art.117, primo comma della Costituzione). Con un’articolata sentenza di 27 pagine, scritta dal giudice costituzionale Giuseppe Tesauro, la Consulta cita ampliamente una decisione della Corte di giustizia europea riguardante un analogo caso olandese per arrivare a fissare due principi: innanzitutto che uno degli obiettivi principali del sistema di cooperazione giudiziaria in materia penale è quello di favorire il reinserimento sociale del condannato; in secondo luogo che al legislatore dello Stato membroè ”consentito di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata”.
E’ sulla base di questi due ‘paletti’ che la Consulta ritiene che l’Italia non possa non prevedere il rifiuto di consegna anche del cittadino europeo che ”legittimamente ed effettivamente risieda o abbia dimora nel territorio italiano”. All’autorità giudiziaria italiana competente spetta pertanto – scrive la Consulta – ”accertare la sussistenza del presupposto della residenza o della dimora, legittime ed effettive, all’esito di una valutazione complessiva degli elementi caratterizzanti la situazione della persona, quali, tra gli altri, la durata, la natura e le modalità della sua presenza in territorio italiano, nonché i legami familiari ed economici che intrattiene nel e con il nostro Paese, in armonia con l’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
I giudici costituzionali concludono puntualizzando che in ogni caso ”resta riservata” al legislatore ”la valutazione dell’opportunità di precisare le condizioni di applicabilità al non cittadino del rifiuto di consegna ai fini dell’esecuzione della pena in Italia, in conformità alle conferenti norme dell’Unione europea, così come interpretate dalla Corte di giustizia”.