Chi lo conosce sa che non è uomo da colpi di testa o scatti umorali, ma per il superpoliziotto De Gennaro sono ore difficili: si dimette, resta in sella, aspetta che l’amarezza passi. Dopo la sentenza d’appello che lo condanna a 16 mesi per i fatti di Genova, l’uomo forte della Polizia non vuole rischiare di sentirsi un’anatra zoppa. Sfogliando i retroscena pubblicati sui maggiori quotidiani italiani il capo del Dis (Dipartimento Informazioni per la Sicurezza) una cosa appare certa: l’uomo è provato e la prima idea è stata quella di farsi da parte.
Carlo Bonini sulla Repubblica racconta di vari sms di solidarietà, come quello del capo della Polizia Manganelli, e di una telefonata di Gianni Letta che lo invitava a rimanere. D’altra parte la fiducia del governo sarebbe arrivata pubblicamente e quasi sincronicamente da parte dei ministri dell’Interno e della Giustizia Maroni e Alfano.
Il percorso che ora si immagina più probabile, sbollita la rabbia per una sentenza sentita come ingiusta, è una formale remissione dell’incarico nelle mani della Presidenza del Consiglio che velocemente le respinge. In fondo questa linea sarebbe coerente con la difesa ad oltranza dell’ex capo della Polizia già all’indomani della notte del 19 luglio 2001, quando gli agenti irruppero nella caserma Diaz. Il principio di salvaguardia è chiaro: si processano i poliziotti, non la Polizia. Fino all’ultimo atto del procedimento in corso De Gennaro sente come un obbligo morale verso chi è imputato nel processo. Mollare darebbe un enorme significato politico alla vicenda.
La biografia del poliziotto, il curriculum, la stima trasversale di cui gode, sembrano giocare a favore di una sua permanenza nell’incarico. Ma una crepa nell’immagine di De Gennaro s’è aperta.