ROMA – “La Moby Prince non affondò per un errore umano”. Angelo Chessa, figlio del comandante Ugo Chessa, chiede la riapertura dell’inchiesta sul naufragio del traghetto della Navarma a bordo del quale il 10 aprile 1991 morirono 140 persone. Chessa perse il padre e la madre nello schianto nel porto di Livorno tra la Moby Prince la petroliera Agip Abruzzo. Dopo l’archiviazione del disastro, che per i pm di Livorno fu senza colpevoli, Chessa con l’aiuto dell’ingegnere Gabriele Bardazza avrebbe nuove prove.
Nelle mani di Chessa e di Bardazza, scrive il Corriere della Sera, vi sarebbe un video che dimostra come la petroliera Agip Abruzzo fosse ancorata in una zona del porto di Livorno dove era proibito stare. Una delle incongruenze provate e di cui, secondo Chessa e chi chiede giustizia per le vittime del naufragio, i pm non hanno tenuto conto.
Il Corriere della Sera scrive:
“Il nuovo lavoro di indagine parte da qui. Da vecchie incongruenze e da nuovi strumenti di lavoro. La prova regina della scarsa attenzione dell’equipaggio è per i giudici «clamorosamente esplicitata» dal portellone prodiero aperto, nonostante la normativa Marpol 73-78 lo proibisse. All’epoca nessuno fece caso a questo passaggio. Ma la legge che vieta di navigare in tali condizioni sarebbe entrata in vigore solo nel 1992, e riguardava le nuove imbarcazioni. La Moby Prince avrebbe dovuto adeguarsi nel 1995. Marpol 73-78 invece altro non sarebbe che un testo non vincolante sulla polluzione marina, dove non si fa alcun cenno alla sicurezza”.
C’è poi il video che dimostrebbe l’ancoraggio della petroliera in un punto vietato, scrive il Corriere:
“Il punto più delicato è quello della posizione della petroliera Agip Abruzzo, ufficialmente collocata fuori dal triangolo d’acqua all’uscita del porto, dov’era vietato l’ancoraggio. Un video girato pochi minuti dopo l’impatto, e una ricerca fatta a Livorno per identificare nell’oscurità i cosiddetti «punti cospicui» sulla terraferma, sembra invece stabilire come la petroliera fosse ben dentro l’area proibita. Un’altra scoperta, d’archivio: già nelle motivazioni della sentenza di primo grado le coordinate collocano la Agip Abruzzo là dove non doveva essere. Era una notizia di reato. Nessuno la vide”.
Dopo oltre 20 anni la strage della Moby Prince rimane nel mistero. Nessuna verità per i familiari delle vittime, che continuano a chiedere giustizia per i loro cari.