ROMA – Diciannove anni fa quella frase straziante dalla chiesa dove celebravano il funerale del marito: “Vi perdono, ma inginocchiatevi, pentitevi”. Rosaria Schifani è la vedova di uno degli uomini di scorta di Giovanni Falcone, morto con il giudice nella strage di Capaci il 23 maggio 1993. Oggi, dopo 19 anni, prevale però la disillusione. Rosaria vive a Genova con il figlio e racconta: “La mafia non è morta. Si è infiltrata dovunque, qui al Nord. E giù, a Palermo, il pool antimafia c’è ancora? Non lo vedo più. Vedo solo magistrati che litigano. Soprattutto su quel Massimo Ciancimino che mi ha fatto piangere…”.
“Ma lo capisci che io ho implorato aiuto a questo impostore, che ho chiesto di fare giustizia al figlio del vecchio Ciancimino?”. Gli chiese aiuto nel dicembre scorso, quando per tutti Massimo Ciancimino era solo un pentito di mafia, figlio di un boss. Ora però è in carcere per una presunta calunnia ai danni dell’ex capo della polizia De Gennaro: È accaduto l’otto dicembre, a Fiumicino. L’ho fermato io. L’ho supplicato piangendo di dire la verità . E mi sono quasi affidata a lui, invece di ignorarlo e di maledirlo come bisogna fare con quanti hanno fatto affari e coperto gli assassini di Cosa Nostra. Perché l’ho fatto? Io ce l’ho con me stessa, sciocca, caduta nella trappola. Ma ce l’ho soprattutto con chi mi aveva fatto credere che quel furfante fosse davvero affidabile. Lo vedevo protetto dalla polizia, coccolato dai magistrati, all’università accanto a Salvatore Borsellino, osannato nelle trasmissioni televisive, sui plachi della politica, perfino a Verona con gli uomini di Di Pietro e, fino a qualche settimana fa, in comunella con i giornalisti antimafia al convegno di Perugia…”.
Lui in quell’incontro disse che presto avrebbe fatto il nome dei “signor Franco”, il presunto tramite tra Stato e Mafia. Poi, dopo l’arresto di Ciancimino, la delusione. “Non sono più sicura di niente. Ma è assurdo che tanti magistrati fossero invece sicuri di Ciancimino. Ci servono eroi vivi in questo Paese. Ma eroi alla Ninni Cassarà . Inquirenti come lui che facevano indagini serie. Anche con gli infiltrati per scavare e scoprire. Non solo affidandosi a pentiti infidi, alle parole, a mafiosi pagati con stipendi certo superiori al mio. Ci pensino i magistrati che vanno ai convegni, in tv, a presentare libri. La mia diffidenza di sempre mi porta a pensare che tanti cercano un po’ di visibilità per se stessi. Anche a costo di usare un personaggio dubbio e ambiguo. E ci sono caduta anch’io. Ma lo Stato non dovrebbe metterci in condizioni di diventare creduloni, con le cicatrici che ci portiamo addosso”.
