ROMA – Non ho la fortuna di credere in un Dio – non parlo, ovviamente, solo dell’idea religiosa cattolica dominante nel nostro e in tanti altri Paesi, ma di una qualsiasi entità “divina” a cui sia attribuito dai suoi fedeli il potere di averci creato, e con noi di aver creato il mondo che ci ospita, e di tutelarci, o no, assisterci o assistere indifferente alle tragedie che ci consumano o che consumiamo, il potere di guidarci, e perfino di miracolarci, infine di premiarci o punirci, addirittura per l’eternità. No, la mia ragione – umanamente limitata – mi impedisce di accogliere questo concetto consolatorio, generoso, fortificante. E me ne dolgo molto. Perciò ho scritto “la fortuna di credere”: chi crede in un essere a noi superiore – mi riferisco a quelli che credono non per ottusità o convenienza, ma alle moltitudini che con innocente spiritualità sentono un sincero legame con la guida di Dio e i suoi condivisibili indirizzi – ha un riferimento superiore per i momenti di sofferenza, per il “non senso” della vita, le contraddizioni, il dolore, i tormenti; ha qualcosa e qualcuno verso cui rifugiarsi, per trarne coraggio e la forza di andare avanti.
Noi, atei o agnostici, no: viviamo in estrema solitudine di fronte al mistero della vita e della morte, la sofferenza non è mitigata da nessuna speranza, la nostra guida – non è poco! – è la linea della nostra coscienza laica, vivere per bene, lavorare, non fare male a nessuno, essere più che avere, ispirarsi a princìpi di libertà e di rispetto dei diritti propri e altrui. Sono concetti semplici e nobili. Eppure, quante volte ci affonda la disperazione, senza vie di uscita, nelle sabbie mobili del “non senso” assoluto. Penso che questo stato d’animo tormentato non sia solo mio, ma sia stato, sia e sarà simile a quello di miliardi di uomini e donne privi del sostegno di una fede.
Vorrei aggiungere anche che sono stato probabilmente allontanato dalla fede, da bambino e da adolescente, dall’eccesso di fede della mia famiglia paterna. Un fratello di mio padre era arcivescovo a Reggio Calabria, si chiamava Antonio Lanza, era compagno di studi di Giuseppe Siri, autorevole e famoso principe della Chiesa, più volte annunciato e considerato papabile (negli anni settanta diventai buon amico di Siri, ricordo che mi diceva che prima o poi mi avrebbe convertito alla fede, e, quasi ogni volta che ci incontravamo, mi raccontava episodi della sua amicizia con mio zio). Antonio Lanza morì in una notte nell’estate del 1950, le dicerie popolari indussero la mia famiglia ad accettare la versione secondo cui era stato avvelenato dalla mafia, di cui era un rigido avversario. Lo era, con forza e coerenza, ma probabilmente se ne andò perché, sofferente di diverticolite, fu semplicemente e rozzamente mal curato.
Nel mito della sua figura di religioso e anche di studioso (lasciò una ventina di libri, grossi tomi per me inavvicinabili, scritti in latino), la mia famiglia – numerosa – compattamente visse, salvo qualche eccezione, senza riflessioni, ma in assoluta e a volte, mi spiace dirlo, in assoluta, quasi esaltata devozione. Per dire: ogni volta che ci si riferiva a lui, i nonni, mio padre, gli zii, tutti i parenti non lo citavano neanche per nome, ma lo evocavano, enfaticamente, come “quel santo”.
Questo tipo di bigottismo, più che giustificabile considerandone la radice affettiva, mi portava a una ribellione istintiva e impulsiva: anzichè avvicinarmi alla religione, me ne teneva progressivamente sempre più lontano. Dopo aver superato l’età in cui il dissenso diventa automaticamente ostilità, e la diversità di convincimenti esplode con ironia e purtroppo anche volgarità, crescendo, invecchiando e maturando, il mio interiore bisogno di comprensione mi ha portato a un rispetto totale, oserei dire sacro se l’aggettivo in questa sede non apparisse incongruo, non solo verso chi ha il dono della fede (in questo caso, c’è anche un pizzico di candida, non maliziosa invidia!), ma anche verso i rappresentanti della Chiesa, almeno verso quelli che sanno rappresentarla con umanità e fermezza, divulgandone con coerenza il martirio di Cristo, con attenzione e comprensione per il dolore, per il tormento, soprattutto di chi la fede non l’abbia, o l’abbia provvisoriamente smarrita. Miei amici lettori, ho scritto tutta questa forse lunga e noiosa premessa per arrivare a dire, sotto voce, e in punta di piedi, che nelle ultime settimane ho sentito gioia, stima e ammirazione per due interventi di importanti uomini religiosi. Verso il Papa, Benedetto XVI, che si è rivolto con umanissima attenzione agli uomini, come me, che non conoscono la grazia della fede, addirittura, secondo le cronache, confidando che i nostri dubbi e i nostri tormenti hanno spazio nel suo cuore, ancor più di quanto ne abbiamo le sicurezze della fede. E verso il cardinale Bagnasco, che ha espresso, senza fare politica, ma con altissima fermezza, il biasimo della Chiesa verso i costumi volgari, privi di decenza e di dignità, di chi rappresenta alcune Istituzioni – che pure dovrebbero essere un riferimento esemplare per tutti.
Posso concludere questa pagina di irrituale diario, in maniera sorridente e sincera, sdrammatizzante ma non scherzosa? Ecco: se mai un giorno dovessi anch’io essere toccato dal dono della fede, spero che questo accada non tanto, come umanamente succede a tanti, per paura, in senilità avanzata o in punta di morte, di ciò che ci è ignoto e ci spaventa e ci aspetta dopo la morte, ma per un impulso vero del cuore o per un traguardo raggiunto dalla ragione dalla persuasione di chi ne sa più di me. Sapeste quante volte mi sono vergognato di non avere non solo la cultura e la preparazione, ma anche la pazienza e la determinazione, per leggere quei venti libri in latino scritti dallo zio Antonio!