L’inizio della vicenda risale all’11 ottobre scorso. Ilda Boccassini interviene a un convegno a Milano sulla criminalità organizzata organizzato dall’Università Bocconi. A suo avviso, il fatto che “non siano mai stati istituiti i tribunali distrettuali rappresenta un problema serio”. Boccassini spiega che “le indagini sono accorpate dalla Dda (direzione distrettuale antimafia) mentre il processo viene polverizzato”. “Dobbiamo andare a fare i processi a Pavia, a Como, a Lecco, a Busto Arsizio e a Palmi – ha osservato -: non si può dare in mano un processo a giudici di provincia che, con tutto il rispetto, non sanno nulla” di questi argomenti.
Un tema complesso, quello affrontato dalla Boccassini, riassunto da Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera:
Nel convegno in Bocconi, dunque, Boccassini aveva lamentato che nel 1992 l’iniziale progetto legislativo di accentramento delle risorse e capacità investigative in capo a una unica Procura per ogni distretto giudiziario, motivato dalla necessità di affrontare l’unitarietà di organizzazioni come Cosa nostra e ’ndrangheta, e da lei fortemente condiviso, fosse però rimasto orbo, a suo parere, della mancata introduzione di una contemporanea competenza a livello distrettuale anche per i Tribunali. Con il risultato, secondo Boccassini, di disperdere, in tanti diversi processi davanti a tanti diversi Tribunali, quella precomprensione (quasi culturale prima che giuridica) di substrati e codici mafiosi che il pm ritiene imprescindibile e acquisibile soltanto da una specializzazione anche dei giudici in questi processi. Tema però molto delicato, perché è sottile il confine tra le esigenze di efficacia e competenza (pezzo forte delle tesi pro-specializzazione) e invece i rischi di condizionamento interno, di preponderanza «culturale» della cornice del pm ai danni della difesa, di sacrificio degli automatismi a garanzia del giudice naturale.
In questo contesto Boccassini aveva aggiunto: «Una visione globale la può avere solo il Tribunale distrettuale, ma non sono mai stati attivati. E questo è un problema serio. Se no, dobbiamo (noi della Dda di Milano, ndr ) andare a fare i processi a Busto Arsizio, a Como, a Lecco, e Reggio Calabria deve andare a Locri, a Palmi: il che significa polverizzare il tutto, e mettere nelle mani di giudici di provincia che, con tutto il rispetto, non sanno nulla». E ora a Busto Arsizio i giudici del settore penale (Bossi, Bovitutti, Frattini, Guerrero, Lualdi, Novick, Zoncu) investono il Csm per farsi dire se sia deontologicamente corretto il comportamento del pm e se quell’espressione non sia tale da delegittimare il loro lavoro.