La tradizione dell’infibulazione non è morta, anzi, è più viva che mai, al punto che tra le immigrate africane di seconda generazione, nate e cresciute in Italia arrivano richieste nonostante nel nostro Paese sia reato dal 2006, punibile con la reclusione fino a 16 anni. E se in Italia non riescono a sottoporsi all’intervento, queste ragazze vanno all’estero, dove, nei centri di tatuaggi e piercing o in quelli che promettono interventi di chirurgia estetica genitale è possibile trovare medici compiacenti che effettuano questa pratica a pagamento. Da quel momento una donna ha affermato la sua identità culturale, opponendosi a quella del Paese che la ospita.
Questo lo scenario descritto da Aldo Morrone, direttore dell’ Istituto Nazionale per la Promozione della Salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie nella povertà (Inmp), con sede all’ospedale San Gallicano a Roma. All’ospedale San Gallicano esiste uno sportello dedicato alle donne infibulate, dove Morrone e il suo gruppo di 25 mediatori culturali (soprattutto donne, tra cui alcune ex pazienti) dal 1996 ad oggi hanno curato 10mila donne infibulate, perché le conseguenze di questa pratica sono devastanti sul piano fisico e psicologico.
Le mutilazioni sono fatte senza anestesia, con coltelli, lame di rasoio, vetri rotti o forbici. L’emorragia che ne consegue viene arrestata tamponando la ferita con garze e bendaggi o, nei casi migliori, con punti di sutura. Quindi, infezioni, cheloidi, tetano e addirittura infertilità, oltre a problemi nei rapporti sessuali e durante il parto sono solo alcune delle conseguenze con devono fanno conti le donne infibulate. Le 10mila donne passate dal San Gallicano provenivano soprattutto dall’Africa dove questa tradizione, slegata da dettami religiosi, è radicata.
A Gibuti, racconta Morrone, il tasso di bambine infibulate è del 98%. Ma anche in Italia, ”ci sono medici e le anziane delle comunità che, a pagamento, praticano l’infibulazione. Ce ne accorgiamo solo quando le donne vengono al nostro ambulatorio e osserviamo danni recenti che fanno pensare a un intervento di questo genere”. In Europa va anche peggio. Le mutilazioni sono fatte in ”centri di chirurgia estetica genitale e in quelli dove si fanno piercing e tatuaggi”.
In questo secondo caso, alcuni ricercatori dell’Inmp, ne hanno avuto riscontro durante una missione in Svezia. Il fenomeno ”paradossale”, per Morrone è quello delle giovani ragazze, adolescenti nate in Italia da genitori immigrati o trasferitesi da piccole che ”desiderano” essere infibulate, una volta raggiunta la maggiore età. Le ragazze che hanno fatto questa richiesta, nonostante i numerosi colloqui con i mediatori culturali, in qualche caso, sono riuscite a portare a termine la loro intenzione altrove. ”Abbiamo avuto notizie di una ragazza africana – dice Morrone – che, una volta maggiorenne, si è fatta infibulare in Germania”.
”E’ difficile – confessa il direttore dell’Inmp, da trenta anni impegnato sul campo, in Italia e in Africa – modificare questo modello culturale. Da una collaborazione con colleghi spagnoli siamo addirittura venuti a sapere di immigrate che, approfittando delle vacanze estive, portavano le loro figlie a farsi infibulare nei Paesi d’origine”. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel mondo sono state già sottoposte a mutilazioni genitali, 130 milioni di donne, pari al numero degli abitanti del Giappone e ci sono 3 milioni di bambine a rischio ogni anno. In Italia, i dati più recenti, parlano di 40mila donne infibulate, il numero più alto in Europa, che in totale conta 500mila donne con mutilazioni.
