Un’inchiesta di ‘La Repubblica’ indaga il mondo del “falso” cinese, un business che fattura l’anno 7,5 miliardi di dollari e produce alla nostra economia danni incalcolabili. La galassia cinese della contraffazione è un reticolo di piccoli boss – si legge su ‘Repubblica’ – impegnati a restare invisibili e di giovani aspiranti boss dai metodi assai meno discreti. Sono concentrati nelle aree italiane di maggiore immigrazione, ma anche nei crocevia del traffico internazionale (valichi e porti) attraverso i quali si smistano i container carichi di ogni tipo di merce.
“Dai laboratori full-time di Prato o di Carpi all’incessante lavorio dei negozianti delle varie chinatown di Roma, Milano o Napoli – scrive Luigi Carletti – le comunità che negli ultimi trent’anni si sono insediate in Italia sono fabbriche-mercati a ciclo continuo in cui talvolta distinguere ciò che è legale da ciò che non lo è diventa impossibile anche per chi le studia da tempo. Nel complesso sono cinquantamila le imprese cinesi in Italia, molte delle quali regolari“.
In questo business dell’illecito, ci sono diversi italiani che traggono profitto. “Gli italiani ammessi sono pochi – si legge ancora nell’inchiesta di Repubblica – Quelli strettamente necessari. Qualcuno che superi la barriera della lingue, che sappia districarsi nella giungla delle norme e della burocrazia. Qualcuno di cui potersi fidare. Figure molto ben identificate nella galassia del malaffare cinese: commercialisti, spedizionieri doganali, dirigenti bancari, notai e agenti immobiliari. È un piccolo esercito di professionisti disinvolti quello che lavora per il grande business illegale. Un “circolo chiuso” che, in tutto il Paese, probabilmente non va oltre le cento unità . Perché i cinesi sono abitudinari anche in questo. Se un esperto italiano ha la preferenza di una “famiglia”, in breve tempo può trovarsi a gestire uno o più clan. Centinaia se non migliaia di clienti. Funziona così per tutto, e da sempre”.
E a volte a “sostenere” questi traffici sono proprio i più insospettabili. Si legge ancora su Repubblica: “Tra le indagini condotte in altre città , sembra particolarmente indicativa quella della primavera scorsa a Prato. Nel mirino degli inquirenti finisce Ban Yun Dong, uno dei boss della potente comunità cinese, proprietario del ristorante Hong Kong e titolare di aziende di abbigliamento. Negli anni, Dong ha saputo costruire una rete di amicizie attraverso le quali, oltre a curare i propri affari, dispensa favori ai connazionali assicurando gli agognati permessi di soggiorno. Dopo appostamenti, pedinamenti e intercettazioni, su mandato della Procura, la polizia parte con gli arresti e per alcuni di essi è costretta a intervenire anche in casa propria: tra gli indagati ci sono infatti il vice questore e capo delle volanti Fabio Pichierri, l’assistente capo Michele Passeri in servizio all’ufficio immigrazione, la poliziotta Daniela Ognibene, l’agente delle volanti Emanuele Ghimenti. Altri tre poliziotti (due uomini e una donna) sono sospesi dal servizio. Finiscono nei guai anche due carabinieri dei Nas, Enrico Ostili e Giuseppe Brucculeri. Secondo l’accusa, il disinvolto imprenditore Ban Yun Dong, aveva messo a punto una serie di operazioni illecite che attraverso connivenze e scorciatoie evitavano controlli, davano vigore agli affari ma soprattutto al proprio prestigio nella popolosa comunità cinese del triangolo Prato, Firenze, Pistoia”.