“Mi hai rotto il c…” non è offesa: operaio reintegrato

“Mi hai rotto il c…” non è offesa: operaio reintegrato

PISA – “Mi hai rotto il c…”. Così Massimo Ciurli, operaio di Pontedera (Pisa) si rivolse esasperato al suo datore di lavoro e fu licenziato per insubordinazione grave. Ma per il giudice del lavoro di Pisa quell’espressione non costituisce offesa e per questo ha ordinato alla Comes, azienda metalmeccanica di Fornacette, il reintegro dell’operaio.

Il caso, che risale a ottobre 2013, è riportato sul quotidiano Il Tirreno

Il giudice del lavoro Franco Piragine ha ritenuto la condotta del lavoratore originata «dall’esasperazione provocatogli dal comportamento aziendale» e che la frase «era priva di valenza ingiuriosa nell’attuale contesto sociale». L’operaio voleva usufruire di un permesso, ma non trovava il modulo per richiederlo. Più volte rimpallato tra il capo officina e il datore di lavoro si sarebbe rivolto a quest’ultimo con l’espressione offensiva e per questo licenziato. Il lavoratore si è affidato ad uno dei due studi legali convenzionati con la Cisl di Pisa e, assistito dagli avvocati Clara Fanelli e Chiara Federici, ha impugnato il licenziamento. Nell’ordinanza dello scorso 9 dicembre, il giudice sottolinea che «il fatto sarebbe privo del carattere dell’illiceità perché l’espressione non costituisce un’ingiuria secondo la comune coscienza sociale».

«L’uso abituale di frasi volgari non può togliere l’obiettiva capacità di ledere l’altrui prestigio, ma ve ne sono alcune di uso talmente diffuso, anche quali intercalari, che in relazione al contesto comunicativo perdono la loro potenzialità lesiva» si legge nell’ordinanza, riprendendo precedenti sentenze. «L’evoluzione del costume e la progressiva decadenza del lessico adoperato nei rapporti interpersonali, insieme ad una sempre maggiore valorizzazione delle espressioni scurrili come forme di realismo nelle arti (cinema, letteratura o teatro) ha reso alcune parolacce di uso sempre più frequente, attenuandone la portata offensiva». Il giudice, esclude «la portata offensiva dell’espressione incriminata» ritenendola, in questo caso, «di fastidio e non di disprezzo».

«Ad esempio – prosegue l’ordinanza – è stata adeguatamente motivata la condanna per ingiuria in relazione all’espressione “non rompere le p….” rivolta dal direttore di una comunità di recupero per tossicodipendenti ai carabinieri intervenuti per effettuare un controllo», perché è stato ritenuto che l’imputato avesse inteso contrastare l’operazione dei militari. Viene invece meno la portata offensiva nel caso di Ciurli, “rimpallato” più volte senza riuscire a trovare un interlocutore. «Normale – prosegue l’ordinanza – che il lavoratore si trovasse in uno stato di comprensibile irritazione, derivante dalla percezione che le sue legittime richieste non volessero essere prese in considerazione dall’azienda», condannata anche al pagamento di un’indennità risarcitoria, delle spese legali e dei contributi dal giorno del licenziamento a quello del reintegro.

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Daniela Lauria