I fornai di Milano stimano in 5250 quintali il pane che viene buttato quotidianamente in città, cifra corrisponde a circa 180 quintali al giorno. Per rendere l’idea, ogni milanese rovescia nella spazzatura quattro etti di pane al mese.
«Il problema del pane buttato si aggrava di giorno in giorno perché i consumatori sono sempre più esigenti. Quando ho cominciato a fare questo mestiere, trent’anni fa, lavoravamo quattro tipi di paste. Adesso le varietà si sono moltiplicate all’infinito. E se non hai sempre l’assortimento completo e caldo, perdi clienti», racconta Stefano Fugazza, a capo dei panificatori dell’Unione artigiani di Milano. «Con questo modo di lavorare l’invenduto aumenta a dismisura», tira le somme Fugazza.
«In media resta sugli scaffali il 10% del pane prodotto. Difficile scendere sotto questa percentuale », fa il punto Gaetano Pergamo, direttore del settore alimentare di Confesercenti. La Claai stima tra i tre e sette chili il pane invenduto ogni giorno in ciascuna delle 500 panetterie milanesi. Il che vuol dire che si arriva anche a 750 quintali di pane buttato al mese in città, buttato perché non lo si può neanche distribuire a famiglie in difficoltà o ad associazioni di volontariato «Il nostro pane a fine serata non interessa più nessuno. Lo abbiamo proposto persino ai canili, ma andrebbe integrato con altri alimenti, e così la preparazione del cibo costerebbe troppo in termini di manodopera».
Il pane avanzato non può nemmeno essere rivenduto grattugiato il giorno dopo perché ci sono regole rigide da rispettare: controllo del grado di umidità, confezioni, etichettature. Insomma, non ne vale la pena.
Le grandi associazioni del volontariato spiegano così il paradosso del pane buttato. «Attrezzarsi con un furgoncino per andare a raccogliere ogni sera quel che resta ai panettieri comporterebbe uno sforzo e un costo considerevoli», fa notare Pier Maria Ferrario, a capo di Pane Quotidiano, associazione che a Milano garantisce pasti a 660 mila persone l’anno. «I 2.000 quintali di pane che abbiamo distribuito nel 2009 ci sono stati garantiti da Panem, un grande marchio della distribuzione industriale». Naturalmente il problema riguarda anche i supermercati.
La scena si ripete di frequente a ridosso della chiusura dei supermercati: se alla Coop cercano «di produrre esattamente quello che va consumato» attraverso un accurato monitoraggio dei consumi che «consente di ridurre gli sprechi», altri grandi marchi puntano sulla cessione del pane a produttori di mangimi, ma anche qui ci sono diversi problemi: «Il fatto è che non si possono mescolare diversi tipi di pane perché i mangimi devono mantenere determinati valori nutrizionali — spiega Antonio Marinoni, presidente dei panificatori milanesi aderenti a Confcommercio —. E così, in teoria, prima del conferimento ai consorzi bisognerebbe dividere il pane comune da quello all’olio, e così via separando».
L’unica arma in mano alla distribuzione sembra essere quello di sviluppare sistemi di previsione della domanda talmente accurati da ridurre al minimo gli sprechi. C’è anche chi utilizza semilavorati da infornare man mano che entrano i clienti. «Ma la vera soluzione sarebbe abbassare i prezzi di vendita del pane dopo le sei del pomeriggio, così i negozi ridurrebbero l’invenduto. E le famiglie avrebbero una strada per risparmiare» propone Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo.
