ROMA – Millecinquecento in 13 anni, orfani due volte. Sono i minori, bambini o ragazzini, che hanno perso la mamma in uno dei tanti casi di “femminicidio” e che di conseguenza hanno perso anche il papà, in questi casi assassino della mamma e finito in galera. Lasciati soli a elaborare un lutto enorme, spesso affidati a parenti o a nuove famiglie lontano dalla provincia d’origine. Chi sono, che percorso hanno seguito, da chi sono stati aiutati questi orfani?
Le storie le ha raccolte un team di otto ricercatori dell’università di Napoli. Hanno cercato le storie di cronaca, concentrate tra il 2000 e il 2013, raccolto nomi e cognomi delle vittime, chiamato gli avvocati, parlato con i genitori affidatari o con i familiari. Tutto per capire come sono stati aiutati a crescere. La conclusione degli studiosi non è rassicurante, non sempre almeno. Spiega la professoressa Anna Costanza Baldry:
“Le istituzioni molte volte non sono di aiuto. Fanno resistenze secondo me ingiustificate. Ci vorrebbe la collaborazione delle forze dell’ordine dei servizi dei tribunali per i minorenni: la privacy è garantita. E noi comunque non piombiamo all’improvviso nella vita delle vittime. Se chiediamo un colloquio con un maggiorenne è per capire come ha vissuto la fase successiva al lutto, se è stato aiutato e da chi, cosa lo avrebbe potuto far stare meglio. I bambini non li incontriamo: per loro ci bastano i racconti degli affidatari. E per i più grandi, ancora minorenni, c’è sempre bisogno del permesso da parte dell’affidatario”.
«Non vorrei sembrare troppo dura, ma viene da pensare che questi ragazzi siano orfani tre volte, perché pure lo Stato li ha abbandonati nel momento in cui ha ignorato le denunce di violenza presentate dalle vittime», prosegue Baldry.