Arrivano dal Ghana, dal Togo, dal Marocco, dalla Costa d’Avorio, dal Benin, dal Sudan, dalla Mauritania e dal Congo. E arrivano da tanti altri Paesi che gli italiani,di norma, non hanno neppure mai sentito nominare. Arrivano sui barconi, ammassati come bestie. Sono schiavi prima, per pagare la traversata agli scafisti, e sono schiavi dopo, dei caporali, della criminalità organizzata e degli imprenditori che vogliono manodopera a costi bassissimi.
Sono gli immigrati, i nuovi schiavi. Se ce la fanno arrivano in Italia; gli ostacoli non sono pochi: bisogna pagare la traversata, non morire durante il viaggio, evitare le espulsioni alla frontiera o far perdere le tracce dopo una prima identificazione. A quel punto gli immigrati ottengono, in “premio”, un lavoro in nero e sottopagato, un alloggio che per i più fortunati è un capannone dismesso, sporco e senza luce nè acqua e la paura e l’ostilità di tanti italiani.
Solo a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, quando è stagione di raccolta delle arance, sono tra i tremila e i quattromila contro una popolazione locale di quindicimila anime. Tutti uomini, rigorosamente. Per cultura e religione? Forse. Certamente per il tipo di lavoro, massacrante, in cui vengono impiegati.
Ma anche quando sono arrivati nel nostro Paese, per i nuovi schiavi il viaggio è appena cominciato. Il lavoro, infatti, bisogna rincorrerlo. Quindi, in primavera si va in Campania per raccogliere i pomodori, a novembre in Puglia per le olive, a dicembre in Calabria per raccogliere le arance. In posti come Rosarno dove il 7 gennaio è scoppiata la rivolta causata da un’aggressione, a colpi di fucile, contro due di loro.
Gli immigrati lavorano 12-14 ore al giorno: vanno nei campi all’alba e tornano nei loro “alloggi” quando non ci si vede più. Il tempo di mangiare qualcosa – per i più fortunati ci sono le mense Caritas, altrimenti bisogna arrangiarsi da soli con un fornelletto di fortuna – di dormire qualche ora e poi si torna a incurvare la schiena.
Una giornata lavorativa tipo frutta, ai nuovi schiavi, circa 20 euro. Grosso modo 1 euro e venti centesimi l’ora. I caporali, quasi tutti a “libro paga” della criminalità organizzata, solo per vederli lavorare, prendono 5 euro a “pezzo”.
Prima degli scontri di Rosarno gli immigrati erano tutti divisi per ragioni di provenienza e, con ogni probabilità torneranno ad esserlo anche dopo. In queste ore, invece, sono stati uniti dalla disperazione e dalla rabbia. I magrebini, tra i più fortunati, vivono in un gruppo di case abbandonate poco fuori dal paese. I sudanesi sono da un’altra parte, in un tendone “arredato” con interni di automobili rottamate. I senegalesi, invece, si sono sistemati vicino ad un ex inceneritore.
Uno dei luoghi dove sopravvivono i nuovi schiavi, a Rosarno, si chiama “Rognetta”, un ex deposito alimentare che non ha più neppure il tetto. Un nome emblematico in un luogo dove di rappresentanti dello Stato non c’è neanche l’ombra e ci sono solo quelli di Medici Senza Frontiere che fanno quello che possono, distribuendo medicinali, coperte e sacchi a pelo. E le maliattie, viste le condizioni igieniche disastrose, non mancano: «Le più frequenti – spiega Saverio Bellizzi, un giovane medico di Msf – sono le difficoltà di respirazione, dovute al freddo, ma soprattutto al fumo prodotto dal fuoco che accendono nel capannone, tra le baracche di cartone, per cucinare e riscaldarsi”.
Altri, sparpagliati, hanno avuto la fortuna di trovare un capannone. Ognuno di questi ha una scritta sopra che indica i luoghi di provenienza di chi lo abita. Si va da Casablanca a Dakar, passando per Rabat, Fes, e Mombasa. La geografia della schiavitù.