La toponomastica non è certo un parametro per misurare quella memoria di un uomo, ma qualcosa varrà e qualcosa misurerà, mentre siamo entrati nel Terzo Millennio, quello che Taviani si divertiva a immaginare con la sua facondia di grande appassionato geografico e politico, un antesignano della globalizzazione, che i suoi geni di colombista doc, le sue esperienze di viaggi nel mondo, soprattutto in America Latina, di rotte oceaniche e di confini di terra, di potenti contrapposizioni etniche, razziali, religiose, gli facevano diventare urgente, stringente, appassionante nelle elucubrazioni trasbordanti con i collaboratori, con gli interlocutori di turno.
Avanti e indietro in passeggiate infinite, lui con le mani dietro la schiena e l’interlocutore silenzioso, sul terrazzo della sua casa romana o a Bavari, appunto, immersi nel verde o lungo qualche spiaggia del litorale laziale nei suoi rari momenti di riposo tra un corridoio di ministero, un’aula di Camera e Senato, una riunione di partito. A parlare della Russia, della Cina, della mescolanza delle razze in America, dei conflitti e delle paci possibili e di quelle impossibili…
Allora che parametro usiamo per pesare la memoria di un uomo così decisivo nei destini della sua terra ligure genovese, nel suo sforzo politico di Liberazione antifascista e poi di costruzione di quella Repubblica basata sulla Costituzione oggi tanto minacciata e insultata? Quale metro ora che quella Repubblica è venuta giù come un castello di carte, a incominciare dal suo partito della Democrazia Cristiana e che i sistemi politici, elettorali sono a variazione permanente continua e che il sistema della comunicazione, del quale Paolo Emilio Taviani era un fruitore rigido e inflessibile, sobrio come un genovese, prudente fino all’eccesso, è esploso nella supernova dei gossip a raffica, di esibizionismi scatenati, di scandali a ripetizione?
Usiamo il parametro di Genova, del suo sviluppo, del suo futuro che era il suo pensiero dominante, anche oltre il cinismo pragmatico, di un uomo di governo saltato dalla Resistenza vittoriosa alla macchina del governo nazionale, ai seggi della Camera e del Senato, senza possibili tappe intermedie, la scorciatoia istituzionale della sua generazione, investita sulle macerie della guerra e di una dittatura ventennale, al ruolo di rifondare, costituire, ricostruire, governare, da subito un Paese travolto dalla guerra e prima da un regime fallimentare liberticida e economicamente naufragato in una anarchia da operetta.
Usiamo la bussola di questa città uscita dalla guerra con il porto minato dai nazisti, pieno di relitti e le industrie a catafascio, da ricostruire o da chiudere, comunque da convertire in un’operazione colossale intorno alla quale, quella generazione, compì un miracolo, soprattutto perché nella nuova democrazia gli scontri ideologico politici erano frontali e di una violenza inaudita: i cattolici di Taviani e della Dc contro i comunisti del Pci, di una classe operaia che si sarebbe avviata a avere più di centomila rappresentanti e un controllo cellulare del territorio come mai nessun organismo di partito avrebbe mai contato nella storia, altro che Pnf.
Come conciliare la sua ideologia cattolica, solidale, volontaristica con la negazione del diritto di proprietà, con il marxismo delle masse, con il Vangelo laico e comunista e socialista non riformista in vigore nelle grandi periferie industriali genovesi, nel porto dove i camalli tenevano ancora nascosti i mitra della Resistenza da usare contro i nazi e domani chissà…
