Taviani, 10 anni fa morì il “re di Bavari”

GENOVA – Cosa avrebbe detto Taviani? Cosa avrebbe fatto Taviani? Come si sarebbe mosso Taviani? Dieci anni dopo la sua morte, improvvisa, nella estate genovese di fuoco culminata nei fatti del G8, con il suo figlioccio di Cresima, Claudio Scajola ministro dell’Interno, sulla poltrona, quindi, che lui occupò per otto anni tra il 1960 e il 1967 e poi nel 1973-1975, forse conviene ripartire da queste domande per ricordare.

Paolo Emilio Taviani, figlio di Ferdinando, riposa nella sua tomba di Bavari dal giugno del 2001 e il suo ricordo è talmente vivo nella memoria della politica e della città che a volte si potrebbe pensare: il patriarca della Dc, il “re”, appunto, di Bavari, il ministro più volte al governo nella storia repubblicana di qualsiasi altro genovese e ligure, il professore di Dottrine Economiche all’Università di Genova, il partigiano “bianco” dell’annuncio della Liberazione, con la sua voce a Radio Genova, il presidente della FIVL, lo studioso di Cristoforo Colombo, il cofondatore della Dc, alla fine è ancora vivo.

A volte, invece, si potrebbe pensare che il suo nome, la storia delle sue opere, sia stata cancellata dallo stesso vento che in certi giorni gelidi si infila anche lassù sulla collina di Bavari, nel piccolo cimitero o nella sua piccola casa, cento metri di sotto, di costa alla strada che scende tutta curve verso Fontanegli e la Valbisagno.

La tomba, la casa, quella strada nel verde trionfante della fine primavera che ci porta l’anniversario della morte, sono sempre là. Ma il resto? A Genova esiste uno slargo, di fianco al Museo del Mare intitolato al suo nome, una piazzetta di lato alla Darsena, di lato a via Gramsci, che i turisti diretti al sommergibile, diventato l’attrazione del vecchio porto o porto antico che esiste anche e sopratutto grazie alla sua testardaggine colombiana, a quell’insistere sul Cinquecentesimo decenni prima della data fatidica del 12 ottobre 1992, che lo guardavano come un fissato quando ancora potente, nel fulgore della sua carriera di governo, lo vaticinava, neppure colgono toponomasticamente il nome del “titolare”, questi turisti, con nel naso l’odore della salsedine marcia delle acque portuali e negli occhi i mille colori di quella giravolta città-porto-mare-navi-traffico.

Uno slargo di poche decine di metri quadrati, ottenuto – bisogna riconoscerlo – per l’insistenza di uno dei suoi seguaci, quello più controverso e di questi tempi anche molto discusso, l’unico a diventare ministro in ben altra Repubblica, in ben altri tempi, in ben altro partito della sua Dc, Claudio Scajola, l’imperiese berlusconiano, e per il ricordo di pochi altri. Nel disinteresse generale: a quell’inaugurazione dello slargo Taviani non ci saranno state più di venti persone.

Un pezzettino minuscolo della città, in un luogo che ai suoi tempi non esisteva neppure, chiuso dietro il muro di Genova, che separava la città dal suo porto, una grata di ferro e mattoni, una barriera fisica psicologica, doganale che stava sotto la roboante Sopraelevata e quell’angolo di polvere e rumore tra i grandi silos e le sirene delle navi.

La toponomastica non è certo un parametro per misurare quella memoria di un uomo, ma qualcosa varrà e qualcosa misurerà, mentre siamo entrati nel Terzo Millennio, quello che Taviani si divertiva a immaginare con la sua facondia di grande appassionato geografico e politico, un antesignano della globalizzazione, che i suoi geni di colombista doc, le sue esperienze di viaggi nel mondo, soprattutto in America Latina, di rotte oceaniche e di confini di terra, di potenti contrapposizioni etniche, razziali, religiose, gli facevano diventare urgente, stringente, appassionante nelle elucubrazioni trasbordanti con i collaboratori, con gli interlocutori di turno.

Avanti e indietro in passeggiate infinite, lui con le mani dietro la schiena e l’interlocutore silenzioso, sul terrazzo della sua casa romana o a Bavari, appunto, immersi nel verde o lungo qualche spiaggia del litorale laziale nei suoi rari momenti di riposo tra un corridoio di ministero, un’aula di Camera e Senato, una riunione di partito. A parlare della Russia, della Cina, della mescolanza delle razze in America, dei conflitti e delle paci possibili e di quelle impossibili…

Allora che parametro usiamo per pesare la memoria di un uomo così decisivo nei destini della sua terra ligure genovese, nel suo sforzo politico di Liberazione antifascista e poi di costruzione di quella Repubblica basata sulla Costituzione oggi tanto minacciata e insultata? Quale metro ora che quella Repubblica è venuta giù come un castello di carte, a incominciare dal suo partito della Democrazia Cristiana e che i sistemi politici, elettorali sono a variazione permanente continua e che il sistema della comunicazione, del quale Paolo Emilio Taviani era un fruitore rigido e inflessibile, sobrio come un genovese, prudente fino all’eccesso, è esploso nella supernova dei gossip a raffica, di esibizionismi scatenati, di scandali a ripetizione?

Usiamo il parametro di Genova, del suo sviluppo, del suo futuro che era il suo pensiero dominante, anche oltre il cinismo pragmatico, di un uomo di governo saltato dalla Resistenza vittoriosa alla macchina del governo nazionale, ai seggi della Camera e del Senato, senza possibili tappe intermedie, la scorciatoia istituzionale della sua generazione, investita sulle macerie della guerra e di una dittatura ventennale, al ruolo di rifondare, costituire, ricostruire, governare, da subito un Paese travolto dalla guerra e prima da un regime fallimentare liberticida e economicamente naufragato in una anarchia da operetta.

Usiamo la bussola di questa città uscita dalla guerra con il porto minato dai nazisti, pieno di relitti e le industrie a catafascio, da ricostruire o da chiudere, comunque da convertire in un’operazione colossale intorno alla quale, quella generazione, compì un miracolo, soprattutto perché nella nuova democrazia gli scontri ideologico politici erano frontali e di una violenza inaudita: i cattolici di Taviani e della Dc contro i comunisti del Pci, di una classe operaia che si sarebbe avviata a avere più di centomila rappresentanti e un controllo cellulare del territorio come mai nessun organismo di partito avrebbe mai contato nella storia, altro che Pnf.

Come conciliare la sua ideologia cattolica, solidale, volontaristica con la negazione del diritto di proprietà, con il marxismo delle masse, con il Vangelo laico e comunista e socialista non riformista in vigore nelle grandi periferie industriali genovesi, nel porto dove i camalli tenevano ancora nascosti i mitra della Resistenza da usare contro i nazi e domani chissà…

Cosa farebbe, cosa direbbe Taviani sessanta anni dopo, se si trovasse nell’ombelico di questa Genova di oggi, calata sotto i seicentomila abitanti, con un modello postindustriale deflagrato nell’ecatombe dell’industria di Stato, con un porto privatizzato e in preda a liti continue tra armatori, imprenditori, con nuovi orizzonti difficili da traguardare come l’hi-tech e i regni dell’informatica, dove Erzelli di Carlo Castellano e Iit di Vittorio Grilli e Stefano Cingolani sono come fari accesi nel buio, con nuovi bisogni di una società da assistere e molto meno assistita, una nuova popolazione e l’indice di anzianità più spinto d’Italia, d’Europa e qualcuno dice del mondo intero: la generazione nata dopo quella guerra già oltre i 65 anni e quella del babyboom prossima a raggiungere quel livello che schiaccia il futuro.

Non gli sembrerebbe certo la “città dei camerieri”, che i suoi avversari politici del fronte “rosso” agitavano come uno spauracchio nelle elezioni intorno al fatidico 1948 e che di fatto si realizza con la crescita del settore terziario, del turismo, con il lancio delle bellezze naturali e di quelle artistiche culturali, che restavano sotto la coperta grigia di un understatement secondo il quale la Superba era porto, fabbriche, e le uniche attrazioni il cimitero Monumentale di Staglieno, il promontorio di Portofino, la Lanterna, la terrazza Martini e due musei, dicasi due, in via Garibaldi.

In quella città da ricostruire il parametro di Taviani era stato anche quello maturato nei suoi studi economici, partiti dalle teorie di Carlo Toniolo, il grande economista cattolico dello scavallo tra Ottocento e Novecento, l’Einaudi del mondo cattolico, l’uomo che “formò generazioni di economisti e diede una risposta cristiana allo scontro epocale tra il marxismo e il mercato, mentre il paese era divorato dal corporativismo fascista”.

Taviani era per “la terza via”, ma questa che percorso avrebbe fatto a Genova, la capitale industriale, il grande porto pubblico? Certo anche Taviani aveva creduto in una soluzione corporativa e che il fascismo più il corporativismo applicato all’economia avrebbero potuto essere una soluzione cristiana, per risolvere il problema dell’uomo, il lavoro, l’impresa, lo sviluppo.

Ma erano convinzioni da studente, quello che vinceva i premi scolastici del regime. Sarebbe arrivata negli anni Trenta la svolta di Camaldoli, il ruolo dello Stato nell’economia, la funzione dell’Iri e quindi la soluzione di un’economia mista, studiata da altri grandi economisti cattolici come Pasquale Saraceno, fino ad Amintore Fanfani, il grande rivale politico ma il suo maestro in questa economia della terza via.

Questo era il credo economico di Paolo Emilio Taviani, intorno al quale si costruì anche quella nuova Genova “irizzata”, per decenni criticata come se fosse sotto un ombrello che soffocava l’iniziativa privata, ma di cui oggi si sente la mancanza e si misura l’immenso giacimento di capacità manageriali, professionali e tecniche.

Basta pensare a quanto hanno lasciato Italimpianti, Ansaldo, Fincantieri, Italsider a Genova, nel mondo e anche nelle aziende stesse sopravvissute all’ecatombe dell’era Tangentopoli. L’impronta era nella Costituzione, negli articoli chiave, come il 41, nei quali la traccia economica sociale era ben calcata.

La Genova che è uscita dalla ricostruzione ed è cresciuta fino agli anni del boom demografico e economico, tra cattedrali dell’Iri e un indotto a sua immagine e somiglianza, tra primati marittimo-portuali, aveva quel timbro ed ha lasciato una striscia di eredità che arriva ai giorni nostri non solo con le formule come il managing by out alla Esaote e alla Carlo Castellano: quante società di ingegneria nate dalle costole Iri, quante associazioni “private”, con nella pancia il verbo Iri, la formula che, tra il 1992 di Tangentopoli e il berlusconismo sfacciato, era diventata una parolaccia, una bestemmia economica!

Ed è facile ora applicare la formula della terza via, dell’economia mista a quella città, strappata dall’isolamento con autostrade, aeroporto ed altre infrastrutture che sono il top del lavoro del “re” di Bavari, innervata dal management di grande livello di Ansaldo e Italsider e Italimpianti e poi Elsag.

Chi meglio di leader come Pittaluga, Redaelli, Puri, Sicouri, Albareto, Gambardella, Milvio e prima ancora Rosini hanno incarnato quella terza via e chi più della firma di Ansaldo è ancora un segno dell’imprenditoria italiana nel mondo,  oggi che il mondo è rovesciato e ancor più si rovescia, come ieri nelle guerre fredde e nelle polarizzazioni economico-politiche?

Tutti amici di Taviani quei manager Iri della terza via? Neppure per idea: spesso si trattava di nemici o meglio di avversari. Taviani coltivava il suo pensiero dominante genovese su un asse molto più ampio. Le leggende di allora, poi un po’ tanto superficialmente tramandate ai posteri da un giornalismo spesso ripetitivo e stanco, riferivano del famoso asse Taviani-Costa-Siri, come della garanzia dello sviluppo: il ministro Dc potente a Roma e in Liguria, il grande imprenditore privato, presidente di Confindustria, il cardinale-principe, che sfiorò due volte il soglio Pontificio, prima di Giovanni XXIII e di papa Giovanni Paolo II e che teneva la città in pugno con la solidarietà dell’Auxilium e i capellani del lavoro nelle fabbriche.

Questa è una versione troppo superficiale: esistevano ovviamente sintonie tra quei contemporanei (Taviani era più giovane), ma solo quelle di un cattolicesimo forte e blindato e l’interesse comune a far prosperare Genova. Ma Costa era il presidente di Confindustria e di Confitarma che aveva il suo credo economico nel mercato, in un’economia naturalista, non in quella volontaristica delle visioni di Toniolo.

Genova aveva Ppss forti anche perché il ministro addetto era stato per anni Giorgio Bo, genovese, ligure in un dicastero che Taviani evitò con eleganza per sempre, scegliendo perfino le Finanze, il Tesoro, il Bilancio e la Cassa del Mezzogiorno, punti nevralgici dell’economia nazionale, ma stando lontano dalla poltrona che così direttamente si interconnetteva con le grandi aziende della sua Genova.

Questione di stile. Il rapporto con Angelo Costa era pratico ed efficiente. I due grandi si mettevano d’accordo facilmente, avevano ambasciatori efficienti nelle allora potentissime Associazioni Industriali e Camera di Commercio. Ed anche Siri non era poi così vicino a Taviani, ex fucino, più prossimo a grandi preti come don Guano, don Lercaro, don Viola e sopratutto don Franco Costa, divenuto poi anche assistente di Azione cattolica, grande consigliere di Paolo VI, un Costa non Costa, savonese, uomo ponte con quello che allora si chiamava Oltretevere, ai tempi della formazione del centrosinistra, che tanto fece arrabbiare Siri contro Taviani e che indispettì il liberale Angelo Costa, quando si insediò a palazzo Tursi con un altro grande sindaco, voluto da Taviani stesso, Vittorio Pertusio.

Il modello, il parametro era allora proprio quello di un’economia mista, che si vorrebbe spolverare ora dopo i cataclismi della fine Millennio. E poi, per tagliare corto nelle vicissitudini genovesi e nella bussola che Taviani seguiva, quell’economia mista era anche una delle strade maestre sulle quali ragionare politicamente per avvicinare la Dc al Pci nella mutazione politica che Taviani aveva visto prima di molti altri, che si sarebbe chiamata compromesso storico, a Genova per decenni una vera parolaccia.

Forse sarebbe il caso che tutto questo fosse approfondito scientificamente e non solo prosaicamente e superficialmente come viene fatto oggi qua nel tentativo solo di ricordare qualche traccia di una grande figura che o è ancora viva, come meriterebbe, o vede la sua memoria dissolversi nel processo travolgente mediatico della smemoratezza per ciò che bisogna approfondire, che non fa colpo, che non “buca” Internet e magari Facebook, e trova solo qualche polveroso file su Wikipedia.

Eppure salendo a Bavari nel decimo anniversario della morte e fra un anno nel centesimo anno dalla nascita, anniversario da festeggiare veramente, il recupero di quella memoria potrebbe essere un esercizio che serve veramente alla città, l’ultimo regalo di un uomo grande che Genova, la Liguria e l’Italia hanno avuto. E che era un genovese.

Nel suo libro, uscito postumo per pochi giorni, circondato da manovre investigative perfino indecenti, con la perquisizione della sua casa romana di via Asmara 34 dove i carabinieri cercavano i misteri della Prima Repubblica sullo stragismo, c’è una pagina che elenca freddamente quanto “il ministro” ha ottenuto nella sua lunga carriera di uomo di governo per la sua terra: centinaia di chilometri di strade, da quelle che oggi ci consentono di non essere completamente tagliati fuori dai raccordi europei, autostrade, tangenziali, grandi raccordi a quelle più locali, provinciali, comunali, interpoderali, perfino la mitica “Tavianea” sulle alture genovesi che le leggende metropolitane definivano costruita su terreni di proprietà del ministro-senatore-professore e sulle quali cinquanta anni dopo ci sono solo fili d’erba secca e pini marittimi……. miliardi e miliardi di vecchie lire di grandi e piccole opere che hanno dato un connotato a Genova e alla Liguria. E’ un elenco infinito senza una oncia di rivendicazione personale, di autocompiacimento. Quella era la via, o meglio le vie, di Taviani per Genova e il suo futuro, oggi così complicato.

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fmanzitti