Cosa farebbe, cosa direbbe Taviani sessanta anni dopo, se si trovasse nell’ombelico di questa Genova di oggi, calata sotto i seicentomila abitanti, con un modello postindustriale deflagrato nell’ecatombe dell’industria di Stato, con un porto privatizzato e in preda a liti continue tra armatori, imprenditori, con nuovi orizzonti difficili da traguardare come l’hi-tech e i regni dell’informatica, dove Erzelli di Carlo Castellano e Iit di Vittorio Grilli e Stefano Cingolani sono come fari accesi nel buio, con nuovi bisogni di una società da assistere e molto meno assistita, una nuova popolazione e l’indice di anzianità più spinto d’Italia, d’Europa e qualcuno dice del mondo intero: la generazione nata dopo quella guerra già oltre i 65 anni e quella del babyboom prossima a raggiungere quel livello che schiaccia il futuro.
Non gli sembrerebbe certo la “città dei camerieri”, che i suoi avversari politici del fronte “rosso” agitavano come uno spauracchio nelle elezioni intorno al fatidico 1948 e che di fatto si realizza con la crescita del settore terziario, del turismo, con il lancio delle bellezze naturali e di quelle artistiche culturali, che restavano sotto la coperta grigia di un understatement secondo il quale la Superba era porto, fabbriche, e le uniche attrazioni il cimitero Monumentale di Staglieno, il promontorio di Portofino, la Lanterna, la terrazza Martini e due musei, dicasi due, in via Garibaldi.
In quella città da ricostruire il parametro di Taviani era stato anche quello maturato nei suoi studi economici, partiti dalle teorie di Carlo Toniolo, il grande economista cattolico dello scavallo tra Ottocento e Novecento, l’Einaudi del mondo cattolico, l’uomo che “formò generazioni di economisti e diede una risposta cristiana allo scontro epocale tra il marxismo e il mercato, mentre il paese era divorato dal corporativismo fascista”.
Taviani era per “la terza via”, ma questa che percorso avrebbe fatto a Genova, la capitale industriale, il grande porto pubblico? Certo anche Taviani aveva creduto in una soluzione corporativa e che il fascismo più il corporativismo applicato all’economia avrebbero potuto essere una soluzione cristiana, per risolvere il problema dell’uomo, il lavoro, l’impresa, lo sviluppo.
Ma erano convinzioni da studente, quello che vinceva i premi scolastici del regime. Sarebbe arrivata negli anni Trenta la svolta di Camaldoli, il ruolo dello Stato nell’economia, la funzione dell’Iri e quindi la soluzione di un’economia mista, studiata da altri grandi economisti cattolici come Pasquale Saraceno, fino ad Amintore Fanfani, il grande rivale politico ma il suo maestro in questa economia della terza via.
Questo era il credo economico di Paolo Emilio Taviani, intorno al quale si costruì anche quella nuova Genova “irizzata”, per decenni criticata come se fosse sotto un ombrello che soffocava l’iniziativa privata, ma di cui oggi si sente la mancanza e si misura l’immenso giacimento di capacità manageriali, professionali e tecniche.
Basta pensare a quanto hanno lasciato Italimpianti, Ansaldo, Fincantieri, Italsider a Genova, nel mondo e anche nelle aziende stesse sopravvissute all’ecatombe dell’era Tangentopoli. L’impronta era nella Costituzione, negli articoli chiave, come il 41, nei quali la traccia economica sociale era ben calcata.
La Genova che è uscita dalla ricostruzione ed è cresciuta fino agli anni del boom demografico e economico, tra cattedrali dell’Iri e un indotto a sua immagine e somiglianza, tra primati marittimo-portuali, aveva quel timbro ed ha lasciato una striscia di eredità che arriva ai giorni nostri non solo con le formule come il managing by out alla Esaote e alla Carlo Castellano: quante società di ingegneria nate dalle costole Iri, quante associazioni “private”, con nella pancia il verbo Iri, la formula che, tra il 1992 di Tangentopoli e il berlusconismo sfacciato, era diventata una parolaccia, una bestemmia economica!
