Ed è facile ora applicare la formula della terza via, dell’economia mista a quella città, strappata dall’isolamento con autostrade, aeroporto ed altre infrastrutture che sono il top del lavoro del “re” di Bavari, innervata dal management di grande livello di Ansaldo e Italsider e Italimpianti e poi Elsag.
Chi meglio di leader come Pittaluga, Redaelli, Puri, Sicouri, Albareto, Gambardella, Milvio e prima ancora Rosini hanno incarnato quella terza via e chi più della firma di Ansaldo è ancora un segno dell’imprenditoria italiana nel mondo, oggi che il mondo è rovesciato e ancor più si rovescia, come ieri nelle guerre fredde e nelle polarizzazioni economico-politiche?
Tutti amici di Taviani quei manager Iri della terza via? Neppure per idea: spesso si trattava di nemici o meglio di avversari. Taviani coltivava il suo pensiero dominante genovese su un asse molto più ampio. Le leggende di allora, poi un po’ tanto superficialmente tramandate ai posteri da un giornalismo spesso ripetitivo e stanco, riferivano del famoso asse Taviani-Costa-Siri, come della garanzia dello sviluppo: il ministro Dc potente a Roma e in Liguria, il grande imprenditore privato, presidente di Confindustria, il cardinale-principe, che sfiorò due volte il soglio Pontificio, prima di Giovanni XXIII e di papa Giovanni Paolo II e che teneva la città in pugno con la solidarietà dell’Auxilium e i capellani del lavoro nelle fabbriche.
Questa è una versione troppo superficiale: esistevano ovviamente sintonie tra quei contemporanei (Taviani era più giovane), ma solo quelle di un cattolicesimo forte e blindato e l’interesse comune a far prosperare Genova. Ma Costa era il presidente di Confindustria e di Confitarma che aveva il suo credo economico nel mercato, in un’economia naturalista, non in quella volontaristica delle visioni di Toniolo.
Genova aveva Ppss forti anche perché il ministro addetto era stato per anni Giorgio Bo, genovese, ligure in un dicastero che Taviani evitò con eleganza per sempre, scegliendo perfino le Finanze, il Tesoro, il Bilancio e la Cassa del Mezzogiorno, punti nevralgici dell’economia nazionale, ma stando lontano dalla poltrona che così direttamente si interconnetteva con le grandi aziende della sua Genova.
Questione di stile. Il rapporto con Angelo Costa era pratico ed efficiente. I due grandi si mettevano d’accordo facilmente, avevano ambasciatori efficienti nelle allora potentissime Associazioni Industriali e Camera di Commercio. Ed anche Siri non era poi così vicino a Taviani, ex fucino, più prossimo a grandi preti come don Guano, don Lercaro, don Viola e sopratutto don Franco Costa, divenuto poi anche assistente di Azione cattolica, grande consigliere di Paolo VI, un Costa non Costa, savonese, uomo ponte con quello che allora si chiamava Oltretevere, ai tempi della formazione del centrosinistra, che tanto fece arrabbiare Siri contro Taviani e che indispettì il liberale Angelo Costa, quando si insediò a palazzo Tursi con un altro grande sindaco, voluto da Taviani stesso, Vittorio Pertusio.
Il modello, il parametro era allora proprio quello di un’economia mista, che si vorrebbe spolverare ora dopo i cataclismi della fine Millennio. E poi, per tagliare corto nelle vicissitudini genovesi e nella bussola che Taviani seguiva, quell’economia mista era anche una delle strade maestre sulle quali ragionare politicamente per avvicinare la Dc al Pci nella mutazione politica che Taviani aveva visto prima di molti altri, che si sarebbe chiamata compromesso storico, a Genova per decenni una vera parolaccia.
Forse sarebbe il caso che tutto questo fosse approfondito scientificamente e non solo prosaicamente e superficialmente come viene fatto oggi qua nel tentativo solo di ricordare qualche traccia di una grande figura che o è ancora viva, come meriterebbe, o vede la sua memoria dissolversi nel processo travolgente mediatico della smemoratezza per ciò che bisogna approfondire, che non fa colpo, che non “buca” Internet e magari Facebook, e trova solo qualche polveroso file su Wikipedia.
