ROMA – Mario Calabresi approva il film di Marco Tullio Giordana su Piazza Fontana, pagina della storia in cui morì suo padre, il commissario Luigi Calabresi.
Dopo aver visto al cinema “Romanzo di una strage”, Calabresi, ora direttore della Stampa, spiega al Corriere della Sera: “È un film importante per ricordare quel che è stata Piazza Fontana. Era necessario un omaggio alla memoria e a tutte le vittime: i morti della strage; Giuseppe Pinelli; mio padre; e l’ultima vittima, la giustizia. Giordana è stato coraggioso, perché è uscito dalla contrapposizione tra mio padre e Pinelli, che in questi quarant’anni c’è sempre stata; per cui se si faceva qualcosa per papà subito si rispondeva “allora perché non Pinelli?”, e se si diceva qualcosa per Pinelli la replica era “allora perché non Calabresi?”.
“Il film è sulla linea del presidente Napolitano, che si è impegnato per restituire umanità alle persone, liberandole dalla condizione di simboli, e con questo spirito nel maggio 2009 fece incontrare Licia Pinelli e mia madre. Non è un film buonista, non edulcora la realtà, anzi ha il pregio di mostrare che Pinelli e mio padre facevano due mestieri diversi, erano persone agli antipodi; ma non erano nemici. Romanzo di una strage ha il coraggio della verità storica, che in questo caso coincide con la verità giudiziaria: mostra chiaramente che mio padre non era nella stanza quando Pinelli cadde. E sfata alcune leggende nere: il segno del “siero della verità” era la flebo infilata dai barellieri nel braccio di Pinelli; il “colpo di karate” era l’ematoma lasciato dal tavolo dell’obitorio; le dicerie sull'”uomo della Cia” nascono da un errore più o meno voluto, un caso di quasi omonimia con Calabrese, funzionario di collegamento del Viminale a Washington”.
Per questo Mario Calabresi si dice “grato a chi ha voluto e fatto questo film”. Anche se ci sono alcune perplessità: “I due anni terribili della campagna di Lotta Continua contro mio padre non ci sono, se non per qualche vago accenno: una scritta sul muro, i fischi al processo. Ma se nascondi quella campagna, se non metti in scena il clima del tempo, il linciaggio, la disperazione, si fatica a capire perché sia stata condannata Lotta Continua. La morte di mio padre sembra legata solo ai suoi sospetti sulla destra, al “sogno” finale, al dialogo con il capo dell’ufficio Affari riservati Federico Umberto d’Amato. In realtà, l’idea che fosse stata la destra a mettere la bomba mio padre l’aveva chiarissima fin dall’inizio. La frase che peraltro nel film non c’è — “menti di destra, manovalanza di sinistra” — la disse subito: a mia madre, al questore, al ministero, agli Affari riservati. Nel film non si vedono la campagna d’odio, i titoli macabri, le lettere minatorie, gli insulti per strada. Mio padre si sentiva seguito, pedinato. Si doveva nascondere. Con mia madre non potevano più andare al ristorante, al cinema lei si sedeva e lui si chiudeva in bagno fino a quando non si spegnevano le luci…”.
E se il film suggerisce quasi che, scrive Aldo Cazzullo, la responsabilità dell’assassinio di Calabresi sia dei corpi deviati dello Stato, il direttore della Stampa è convinto che la verità giudiziaria coincida con la verità storica: “Se lo Stato ha una colpa, è aver lasciato mio padre solo, aver permesso che diventasse un simbolo”.
Anche il finale non convince Mario Calabresi. “Ti lascia la sensazione che non sappiamo niente, che non abbiamo né verità né giustizia. Invece la verità storica c’è, eccome. Noi oggi, come ha detto il presidente Napolitano, sappiamo chi è stato, e perché. Conosciamo le responsabilità oggettive e morali. Sappiamo che è stata la destra neofascista veneta, conosciamo complicità e depistaggi dei servizi deviati e dell’ufficio Affari riservati, sappiamo che nel Paese esistevano forze favorevoli a una svolta autoritaria. È pericoloso dare l’idea che non si sappia niente. Sappiamo quanto affermano le sentenze che, se non hanno più potuto condannare, nelle loro motivazioni hanno chiarito le responsabilità”.