ROMA – Ogni cinque anni i professori dovrebbero passare sei mesi in azienda per “capire come funziona il mondo del lavoro”. La proposta è arrivata a fine dicembre sulle pagine del Sole 24 ore, da Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss Guido Carli.
Il ragionamento è piuttosto semplici: gli accademici andrebbero rieducati per “rendere l’insegnamento all’altezza delle sfide che attendono i loro allievi”. In un momento di crisi della scuola e dell’università, secondo Celli “uno dei punti rilevanti dell’insuccesso è la perdurante asimmetria tra il prodotto formativo, ridotto a oggetto di interventi “istruttivi” e destinatario di una serie di conoscenze più o meno standardizzate, e la crescente deformazione attiva del mercato delle professioni di sbocco, con l’emergere di profili di bisogni articolati, in mutazione continua. Ciò che emerge è una sistematica sottovalutazione del problema centrale nella preparazione dello studente al suo futuro lavorativo: che tipo di “testa” gli servirà, nel tempo, per misurarsi con questa mobilità di prospettive occupazionali che lo sfiderà senza tregua. La “flessibilità”, tanto evocata come petizione salvifica per esorcizzare la precarietà, è, in realtà, un problema culturale, di modelli di lettura e interpretazione dei fenomeni da affrontare, prima che una pratica comportamentale di resa all’inevitabile”.
Quindi il dg della Luiss sostiene che “andrebbe rivista la sensatezza di certe impostazioni accademiche e di governance, al di là delle timide aperture – per altro contestate – all’esterno; la validità di certi saperi curricolari; la stessa plausibilità di una costruzione dei corsi di laurea in cui i titolari stessi delle conoscenze da trasmettere, del mercato reale in cui gli studenti dovranno necessariamente finire, poco o nulla sanno personalmente. La “separatezza” perdurante, è molto più di una occasione mancata; a lungo andare abilita alla delegittimazione del valore di un certo sistema di istruzione e dei suoi interpreti (…) Per arrivare a questo, l’intreccio tra interno e esterno dell’università va forzato inevitabilmente, rendendo il più possibile porosi i loro confini, oggi ancora così ferocemente presidiati in nome di una autonomia e di una sacralità della professione accademica che oggi non ha più ragione di porsi nelle forme tradizionali. E qui viene bene presentare una proposta che potrà apparire bizzarra: lo stage. Non è affatto detto che debba solo essere strumento di ambientamento al lavoro per gli studenti. Anche per i professori dovrebbe essere previsto ogni tanti anni – cinque? – un periodo di sei mesi di permanenza in contesti lavorativi esterni che non abbia semplicemente una valenza di studio o di ricerca”.