Indossare la tuta da lavoro in azienda, seguendo le modalità impartite dal datore, è una attività che rientra a tutti gli effetti nel tempo lavorativo che il dipendente mette a disposizione: pertanto deve essere pagato a tutti gli operai e impiegati che indossano la “divisa” cambiandosi negli spogliatoi aziendali.
Lo ha sottolineato la Cassazione bocciando il ricorso della Unilever (colosso del settore alimentare, dei prodotti per la cura del corpo e della casa) contro alcuni lavoratori che avevano ottenuto, dal giudice, il diritto alla monetizzazione del “tempo tuta”. Senza successo la Unilever ha sostenuto, innanzi alla Suprema Corte, che il “tempo tuta” “non richiede applicazione assidua a e continuativa ed è equiparabile ad un riposo intermedio ovvero al tempo necessario per recarsi al lavoro”.
La Cassazione, con la sentenza 19358, non ha condiviso questa tesi: “Se è data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa (anche presso la propria abitazione prima di recarsi al lavoro), la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatori allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito”.
Nel caso della Unilever le modalità di “vestizione” erano stabilite dal datore e prevedevano quattro timbrature di cartellino. I dipendenti avevano ottenuto il pagamento dei dieci minuti quotidiani del “tempo tuta” per 45 settimane l’anno. La Cassazione ha confermato la decisione emessa dalla Corte di Appello di Roma nel 2005.