“Julian Assange per il giornale non era né un partner né un collaboratore, ma solo una fonte. Fin dall’inizio era chiaro che intendeva utilizzarci come megafono, ma noi non ci siamo mai fatti condizionare”. Nel volume di prossima pubblicazione “Open Secrets: Wikileaks, War and American Diplomacy” il direttore del New York Times ricostruisce passo per passo i rapporti intercorsi tra Wikileaks, i media e il governo americano, offrendo pure un singolare ritratto di Assange, raccontato da chi l’ha conosciuto da vicino.
Tutto inizia lo scorso giugno, quando il direttore del quotidiano londinese The Guardian Alan Rusbridger chiama Keller per informarlo dei contatti con Wikileaks e della presenza di materiali scottanti sul tavolo. Keller manda subito a Londra Eric Schmitt, reporter esperto che per anni si è occupato di questioni militari, che intuisce subito l’importanza del caso. In breve si forma una squadra di giornalisti del New York Times, del Guardian e del settimanale tedesco Der Spiegel, a cui qualche mese dopo si uniscono i francesi di Le Monde e gli spagnoli di El Pais. A Wikileaks non interessano soldi, ma solo la massima diffusione possibile dei documenti.
Dopo quattro giorni a Londra, mentre sta lavorando insieme ai colleghi inglesi, Schmitt vede Assange per la prima volta. “È alto e magro, pallidissimo, ha dei capelli che non passano certo inosservati. È vivace ma eccentrico. E sembra che sia molto tempo che non fa una doccia”.
I primi materiali riguardano la guerra in Afghanistan, ma le carte sono troppe e i giornali si devono dividere i compiti. A New York viene allestito un team apposito. Ricorda Keller: “Si respirava un’aria da intrigo tendente alla paranoia intorno a tutta la vicenda, forse a ragione. Stavamo trattando un’enorme mole di informazioni segrete, avendo come fonte un fuggitivo, che cambiava continuamente domicilio, indirizzi email e numeri di cellulare”.
I reporter che collaborano da vicino con Julian Assange ne fanno un ritratto in bianco e nero: “È sveglio, molto esperto in informatica, si vede che ha ricevuto una buona educazione. Tuttavia è arrogante, permaloso, curiosamente credulone, in più vede ovunque cospirazioni, anche dove non ci sono”.
I rapporti tra Assange e il New York Times però si guastano presto. Nei primi articoli del quotidiano newyorkese non c’è il link al sito di Wikileaks, da cui provengono le informazioni. Questo perché nelle carte ci sono rivelazioni pericolose, come ad esempio nomi di agenti infiltrati in territorio nemico, di collaboratori, insomma si possono mettere in pericolo delle vite. Assange si infuria, chiama Bill Keller urlando “ma dov’è il rispetto?”. Ma è solo l’inizio dei litigi e delle incomprensioni, che continueranno mesi.
Keller poi deve confrontarsi con il governo americano, preoccupato per queste fughe di notizie. Il confronto è duro, ma leale. Il direttore del New York Times definisce i membri dell’amministrazione Obama con cui ha trattato “ragionevoli e professionali” e cita Thomas Jefferson per spiegare l’importanza della stampa, anche quando è scomoda, in una democrazia: “È meglio avere dei giornali senza un governo, che un governo senza alcun giornale”.