Birmania: l’oppio come causa e soluzione di tutti i problemi

Nord del Myanmar, gruppi etnici armati in una piantagione di papavero da oppio (Ap-LaPresse)

MYANMAR (BIRMANIA) – Nella fitta giungla che si estende nel nord della Birmania (Myanmar in birmano), fino al confine con il sud della Cina, gruppi armati di minoranze etniche birmane alimentano il traffico mondiale di oppio, sfuggendo facilmente (data la difficile accessibilità dei luoghi) ai controlli della polizia e del Tatmdaw, l’esercito birmano.

Insieme al Laos e alla Thailandia, la Birmania costituisce il cosiddetto “Triangolo d’oro”, la seconda area asiatica per importanza nella produzione e nel commercio di oppio, dopo la Mezzaluna d’oro che si trova in Afghanistan.

Il Myanmar, non diversamente dall’Afghanistan, è un paese prevalentemente montuoso, povero e preda di continui conflitti etnici fra le oltre 200 minoranze stanziate prevalentemente negli Stati settentrionali di Shan e Kachin. A partire dal fallimento del programma di riforme socialiste di Ne Win negli anni ’60 del 900, il paese vive una crisi economica endemica, dalla quale non sembra in grado di uscire.

In Myanmar sono circa 51.000 sono gli ettari di terreno nei quali circa 300.000 contadini birmani sono dediti alla coltivazione di papavero da oppio, dal quale viene ricavata l’eroina.

Tra il 2006 e il 2012, il traffico di stupefacenti nel sud-est asiatico è “raddoppiato”, secondo quanto stimato dal Dipartimento per il crimine e la droga delle Nazioni Unite nel 2012.

In Myanmar, crisi economica e conflittualità etnica sono due facce delle stessa medaglia: l’incapacità dei vari governi birmani di dare forma e compimento al processo federalista affiato sin dal 1947 da Aung Man.

Anziché riconoscere le minoranze etniche e inquadrarle in una struttura statale solida, si è preferito scendere a patti informali coi leader di alcuni gruppi etnici in base ai quali questi ultimi s’impegnano a sradicare le piantagioni di papavero da oppio, ricevendo in cambio dal governo compensazioni in denaro che ne garantiscono la sopravvivenza.

Nel nord del paese, dove le piantagioni sono maggiormente concentrate, si alimenta su se stesso il circolo vizioso conflittualità etnica-traffico di stupefacenti-povertà: le minoranze etniche che il governo centrale decide di non riconoscere utilizzano i contadini nella coltivazione di oppio per auto-finanziarsi e sopravvivere;  contadini i quali, a loro volta, coltivano oppio per la sopravvivenza propria e il sostentamento delle proprie famiglie. Ma mentre guadagnano il minimo per sopravvivere, questi poveri contadini birmani sono vessati dalle percentuali sul raccolto, delle vere e proprie “tasse”, richieste loro dai signori della droga.

Se per i contadini la coltivazione di oppio rappresenta la principale (se non l’unica) fonte di reddito, per i cosiddetti “signori della droga” (i leader dei gruppi etnici che posseggono e gestiscono le piantagioni), essa rappresenta una fonte di guadagno enorme. Per esempio, c’è gente come Wei Zwegang riscuote dalla tassazione dei raccolti di oppio ben 2 milioni di dollari all’anno.

Per non parlare del problema (anche demografico e sociale) delle morti per tossicodipendenza che, in Myanmar come in Cina, sono del tutto comuni. In Asia si concentra un quarto dei consumatori mondiali di droga, di cui un milione nella sola Cina, principale acquirente di oppio dal Myanmar. La droga parte dal nord del Myanmar per poi giungere nel sud della Cina dove viene stoccata negli hub di Canton e Hong Kong e, infine, distribuita in tutta il mondo.

La campagna di sradicamento delle piantagioni di oppio inaugurata dal governo di Naypyidami  nel 2001 e che, entro il 2014, dovrebbe portare alla fine del problema dell’oppio in Myanmar si è finora rivelata totalmente fallimentare, come dimostrano le inchieste sul campo e le immagini satellitari effettuate di recente dalle Nazioni Unite.

Del resto, tale compagnia sembra impossibile da realizzarsi, perché il governo birmano mentre taglia di qua, lascia di là: i gruppi etnici coi quali il governo scende a compromessi sradicano le proprie piantagioni in cambio di finanziamenti governativi, ma quelli che restano esclusi da tali finanziamenti o cessano di esistere o trovano il loro modo per sopravvivere proprio nella coltivazione di papavero da oppio, incrementando con essa il traffico mondiale di stupefacenti.

 

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