C’è un filo rosso che corre dalla cima delle Ande, sempre innevate, cinquemila metri di altitudine, al deserto di Acatama, e ancor più giù, nella miniera di san Josè di Copiapà, nello sprofondo di 700 metri sotto terra, dove 33 “mineros” fanno il conto alla rovescia della loro salvezza. Magari questo filo rosso passa anche sopra il palazzo della Moneda, nel cuore di Santiago, capitale del Cile, dove esattamente 37 anni fa, settembre 1973, giorno 13, i golpisti bombardavano la sede del governo e il presidente della Repubblica, Salvator Allende, moriva con il casco protettivo in testa, la mitraglietta in pugno. Suicidio o crimine dei generali golpisti agli ordini di Augusto Pinochet?
Quel filo rosso è proprio il Cile, una terra di estremismi assoluti, di tragedie cupe e di resistenze strenue anche contro la durezza stessa della natura: i deserti aridi del Nord con le miniere di rame sotto la pancia delle pianure e degli altipiani più secchi e salati del pianeta, le montagne colorate delle Ande con le vette “proibite” alla salita umana e poi giù, verso la Terra del Fuoco argentina, i ghiacci e gli arcipelaghi di quello che un esploratore come Chatwin definiva “ il mondo alla fine del mondo”.
Sì perchè il “mondo apparentemente finisce in fondo a questa striscia di terra schiacciata sotto le Ande, in riva al Pacifico, che è lunga 2500 chilometri e non è mai più larga di 180, dalle spiagge dolci di Valparaiso alla vetta dell’Aconcagua, che sta già in terra argentina.
Il filo rosso lo riporta alla luce la cronaca anche un po’ travolgente di quei 33 minatori che dai primi giorni di agosto stanno a 700 metri sottoterra in un cunicolo che si è chiuso senza possibilità di ritorno. Li avevano dati per morti e solo quindici giorni dopo dalle viscere del deserto di Acatama è salito il segnale che erano vivi e aspettavano.
“Viven”, ha urlato il paese intero, accorrendo nell’ombelico chiuso di quella miniera, montandoci sopra un vero circo della sopravvivenza, calando le telecamere, le sonde, fino alla grotta della resistenza, dove le facce de los mineros sono apparse improvvisamente come quelle di astronauti persi nello spazio.
Questo spazio, invece, era il ventre profondo della terra cilena, di quella terra dura, aspra da dove si cava il rame, il “salario” del Cile ai tempi della Unitad Popular, il governo di Allende, socialisti, comunisti, economia statalizzata e dove le miniere erano diventate del “pueblo unido che jamas serà vencido”, come cantavano gli Inti Illimani, il complesso musicale colonna sonora della sinistra mondiale degli Anni Settanta. I padroni del rame prima erano privati cileni e soprattutto grandi compagnie yankees che le avevano perse in uno sconquasso politico che per tre anni e mezzo sconvolse il Cile e di riflesso tutto il Sudamerica, fino al golpe sanguinoso del 13 settembre 1973.
La lotta dei minatori, le cui storie anche personali, anche troppo personali, come quelle delle doppie mogli, svelate dai messaggi via sonda, confessate da sotto terra nei messaggi di speranza, è sbucata come una sorgente violenta nella pancia di un Cile molto diverso da quello di Unitad Popular, ma dove le tragedie e le resistenze sembrano avere lo stesso marchio, cantato da grandi poeti come Pablo Neruda e da scrittori più popolari come Luis Sepulveda o anche Isabel Allende.
“Viven”, urlano i cileni mandando a Acatama la Marina Militare a costruire la capsula che invece che nei cieli precipiterà nelle viscere della terra per salvare los mineros entro la metà di novembre o forse prima.
Ma “Viven” è anche il nome dell’associazione dei sopravvissuti di una altra grande epopea cilena, quella dei 16 ragazzi uruguayani, atleti di una squadra di rugby, decollata da Montevideo per arrivare a Santiago e schiantata sulla cima delle Ande nel 1972, che subito hanno scritto ai minatori, incitandoli a resistere.
La storia di quella altra sopravvivenza è diventata una leggenda per il particolare che la permise: il cannibalismo confessato dai ragazzi costretti a cibarsi dei resti dei compagni morti nell’impatto dell’aereo e conservati nel ghiaccio eterno delle vette andine. Due di quei “cannibali”, poi assolti da tutte le chiese, e da tutti i riti (c’è chi scrisse che quell’atto di mangiare la carni dei compagni era stata come la comunione della Chiesa Cattolica Romana) riuscirono a scendere lungo il versante cileno della grande montagna e diedero l’allarme: ne salvarono 24 e fu un vero miracolo, una specie di Resurrezione, quando, di quell’aereo, che aveva tentato di planare sulla neve, si erano perse le tacce da più di un mese.
Non è un caso che oggi quella storia drammatica incominciata a oltre quattromila metri di altitudine si saldi con quella in atto settecento metri sotto terra a Nord, in uno scenario così diverso dello stesso Paese sudamericano: la neve eterna e il deserto arido.
Questo è appunto il Cile delle grandi contraddizioni geografiche e dei drammi assoluti, come quello di Salvator Allende, che lo stesso filo rosso della cronaca estrae in questi giorni dalla memoria discussa di un esperimento politico anni Settanta, che affascinò molto e lasciò segni profondi anche nella politica italiana: i famosi “spaghetti italiani conditi con la salsa cilena”. Un progetto, benedetto soprattutto da un leader come Enrico Berlinguer, che lavorava in quegli anni per il compromesso storico.
L’esperienza di Unitad Popular con l’alleanza tra cattolici, socialisti, comunisti, non era, forse, un bel modello per la marcia di avvicinamento tra una parte della Dc e il Pci berlingueriano? Ben prima che sulla scena irrompesse Craxi?
Si riparla di Allende perchè uno dei film in corsa a Venezia, girato dal regista cileno Pablo Larrain ( quello di Tony Manero), riporta a galla il tragico finale di Unitad Popular e la morte di Allende. Un film che piazza una bella storia d’amore tra un impiegato dell’obitorio di Santiago e una ballerina sulla grande e drammatica scena del golpe dei generali.
Teatro del film è quasi sempre l’obitorio della capitale cilena sconvolta dalle autopsie dei morti trucidati dai militari o periti negli scontri di quel 13 settembre. Ovviamente l’autopsia più illustre è quella sul corpo di Salvator Allende e nel film il sospetto che il presidente non si fosse ucciso ma fosse stato piuttosto “mitragliato” dai golpisti diventa quasi una certezza.
Nel Cile di oggi, affacciato sul bordo della miniera in attesa dell’operazione di soccorso e tanto diverso da quello di Allende e di Pinochet, quella lettura della autopsia, 37 anni dopo, sarà come una scossa, un po’ come se in Italia, fatte tutte le differenze, si sostenesse improvvisamente che Benito Mussolini si era suicidato e non era stato giustiziato dal comandante Valerio. Una pagina di storia che si riscrive e si capovolge, almeno in un singolo atto finale.
Chi era in circolazione in quegli anni non può non ricordare i caccia dell’ Aviazione cilena volare radenti sul palazzo della Moneda, dopo che i generali si erano sollevati a Valparaiso, mobilitando la Marina e Allende con un pugno dei suoi asserragliato nei saloni di quel grande palazzo grigio, le armi imbracciate e, appunto, l’elmetto in testa?
I militari cileni erano sempre stati leali custodi di un sistema democratico eccezionale nel continente sudamericano. Ma erano anche un esercito duro, che marciava nei viali di Santiago battendo il passo dell’oca, retaggio di una formazione militare chiaramente tedesca. E nascosti in tante città e paesi di quella lunga striscia di terra, c’erano moltissimi rifugiati nazisti e fascisti, scappati nell’ultima guerra, dalla Germania e dall’Italia. Chi è stato in Cile in quegli anni ne ha incontrati tanti, assoldati da Pinochet, estremisti fanatici che magari avevano poi finito con il ricoprire anche incarichi pubblici e diplomatici, come quel console d’Italia nella città di Punta Arenas, nell’estremo Sud, che sarebbe diventato una specie di custode dell’isola ghiacciata di Dawson, dove lo stesso Pinochet, seppelliva, vivi o morti, i leader e i militanti di Unitad Popular.
Oggi in Cile, dopo un breve interludio di sinistra, governa di nuovo la destra, ma è la destra morbida di Salvator Pineda, un mini Berlusconi sudamericano, succeduto democraticamente a Michelle Bachelet, la presidentessa che ha definitivamente stabilizzato il paese dopo i processi a Pinochet, piazzandolo tra le economie più solide del Sud America, dopo il Brasile e ben prima della Argentina, traballante di scandali e delle tumultuose Venezuela e Bolivia, incerte tra caudilli e dittatori come Chavez e Morales.
Oggi il Cile sta affacciato su quel buco dal quale è salito con la prima sonda 15 giorni dopo il crollo un biglietto con sopra scritto: “Estamos bien en el refugio. Los 33.”
Salgono quotidianamente messaggi duri ma pieni di speranza: “Cara moglie, non so per quale ragione non sono ancora impazzito, dormiamo sul fango, qui intorno è tutto bagnato, non abbiamo magliette, solo pantaloni e stivali, è tutto buio, ho la gastrite, siano stati quindici giorni mangiando un cucchiaio di tonno ogni 48 ore, ma resistiamo, ce la faremo…..”.
E’ un’altra battaglia per la sopravvivenza che sposta lo sguardo del mondo sul Cile, trentasette anni dopo Allende assediato e il fiume di Santiago, il rio Mapocho, rosso di sangue degli assassinati del golpe e trentotto anni dopo il miracolo dei sopravvissuti delle Ande. Immagini della fine del mondo.