David Rohde: la fuga del giornalista rapito dai talebani. 5

David è in piedi nel bagno a notte fonda. Aspetta il suo compagno di prigionia Tahir per scappare. Il cuore gli martella nel petto. Se le guardie li trovano sono uomini morti. Se uno dei rapitori si sveglia David può essere condannato. Il destino di Tahir è segnato in maniera ancora più netta. La vita di un interprete afghano è meno importante di quella di un giornalista americano. Se li sorprendono sarà senz’altro il primo a morire.

Dopo mesi di prigionia sono giunti alla decisione di fuggire. La poca fiducia che potevano riporre nei loro carcerieri è del tutto svanita. Ormai è chiaro: nessuna trattativa sta andando in porto. I talebani non fanno altro che mentire. Qualche giorno prima che David e Tahir fuggano, i rapitori gli annunciano che la liberazione è prossima, e che saranno scambiati con la totalità dei prigionieri di Guantanamo. L’idea è ridicola, quasi insultante, per i due, che capiscono infine di non avere altra scelta che la fuga.

David aspetta nel bagno, ha in mano una corda, per calarsi una volta issati sul tetto. Trovare una corda è stato l’unico colpo di fortuna in questi setti mesi sballottati tra una casa e l’altra nel Waziristan delle tribù e dei talebani. Su questa corda David e Tahir hanno costruito tutte le loro speranze.

Hanno deciso di non coinvolgere Asad nella loro fuga. L’autista afghano, prigioniero con loro, ha ormai fraternizzato con i talebani. Da diverso tempo le guardie lo fanno dormire con loro. Gli hanno anche dato un fucile.

Finalmente, attraverso la finestra del bagno, Tahir appare. David gli sussurra: « Non siamo obbligati ».

« Prendi la corda », risponde Tahir.

Salgono sul tetto del povero edificio. Posizionano la corda e si calano dal tetto atterrando su un canale di scolo.

E’ notte fonda, non c’è nessuno per strada. Per la prima volta da quasi un anno stanno correndo per strada. Sono liberi. Ma non sanno dove andare. In questa città, in questa regione, sono tutti nemici.

David vorrebbe andare in una base militare pakistana, mentre Tahir vorrebbe rifugiarsi sui monti e cercare poi di attraversare il confine. Nessuna soluzione sembra sicura.

« Tieni, prendi – dice Tahir tendendo una sciarpa a David – E se ti chiedono qualcosa tu sei Akbar e il mio nome è  Timor Shah. Comportati come un musulmano. »

All’improvviso dalla sinistra della strada si sentono voci. Si percepisce il rumore di un Kalashnikov che viene caricato. Un uomo urla degli ordini in Pashto.

David alza le mani mentre il suo cuore fa un tonfo. La fuga ha una fine, pensa che i talebani li abbiano catturati ancora una volta. Nella poca luce, si intravede una figura umana sopra un tetto mezzo distrutto, accanto ad una moschea. Intorno all’edificio e alla moschea corre del fino spinato ed una massicciata.

« Se ti muovi – dice Tahir – ci spareranno ».

Poi pronuncia parole a cui è difficile credere: « Siamo arrivati. Questa è la base. »

David alza le mani in aria mentre tenta di restare immobile. Un militare inesperto e nervoso potrebbe sparare. Con la lunga barba e i vestiti pakistani, David sembra un attentatore suicida, non un giornalista americano.

Il militare sul tetto parla con Tahir in Pashto. David non può capire ma riconosce le parole per «giornalista», «afghano» e «americano».

« Digli che adesso ci svestiamo » dice David a Tahir, sapendo che i militari credono che siano kamikaze imbottiti di esplosivo. Dopo che si sono spogliati, con un inglese incerto il militare chiede a David se è americano. Il giornalista comincia a parlare senza fermarsi, vuole far sentire alla guardia il suo accento.

Gli ordinano di entrare nella moschea e di sdraiarsi per terra. Entra un ufficiale, si dirige verso di loro. Parla con Tahir in quello che sembra un tono rassicurante.

« Siamo salvi » – dice Tahir. «Grazie, grazie » non smette di ripetere David. In un solo momento la disperante impotenza di mesi di prigionia svanisce mentre si fa strada la certezza che stanno per tornare a casa.

Qualche minuto dopo David pronuncia infine il nome a cui ha sempre pensato durante la prigionia.

« Kristen? » chiede attraverso il telefono.

« David » risponde sua moglie da New York.

Published by
fmontorsi