TEL AVIV – In Israele ci sono donne che vivono in regime di “segregazione sessita”. E’ paradossale, ma in un Paese dove le donne dove godono di livelli di istruzione e di accesso a responsabilità elevatissimi (donna è il presidente della Corte Suprema; il più grande partito della Knesset è guidato da Tzipi Livni; ben cinque donne si sono recentemente diplomate nella prestigiosa Accademia Aeronautica), una piccola parte della società, formata da fanatici religiosi, caldeggia e pratica una forma di segregazionismo sessista.
La «minaccia» ai diritti delle donne viene dagli ultraortodossi, protagonisti negli ultimi mesi di numerosi atti discriminatori. La lista è lunga e si infoltisce ogni giorno, numeri che indicano il peso crescente di questi haredim – il termine ebraico per indicare gli ultraortodossi – contraddistinti dagli abiti neri, dalle lunghe palandrane, dalla barba, dai riccioletti e, per le donne, da diverse forme di copricapo.
Uno degli episodi che più hanno colpito l’opinione pubblica è il caso di Naama Margolese, una bambina di otto anni che mentre si recava a scuola ha ricevuto sputi ed insulti da un gruppo di ortodossi per il suo abbigliamento «indecente». Qualche tempo prima, il ministro della salute, un ultraortodosso, aveva assegnato dei riconoscimenti per l’attività scientifica. Nella cerimonia, le donne non erano state autorizzate a salire sul palco per ritirare i premi: erano stati degli uomini a riceverli al loro posto.
Per concludere una lista che potrebbe essere più lunga, nei quartieri ultraortodossi gli atti di vandalismo contro i cartelloni che ritraggono delle donne sono ormai moneta corrente e, sempre negli stessi quartieri, la polizia e gli uomini combattono per reinstallare o divellere, alternativamente, segnali stradali che impongono alle donne di camminare su un marciapiede riservato a loro soltanto.
In questo contesto, la società israeliana, la quale credeva a ragione di vivere in una società dagli elevati standard di diritto, si domanda se gli ultraortodossi non costituiscano ormai una minaccia per i suoi principi di uguaglianza. La grande maggioranza del mondo politico, dei media e dell’opinione pubblica sono contrati al maschilismo aggressivo degli haredim. Il primo ministro Benjamin Netnyahu, in un recente meeting, ha affermato «Questo è un paese dove gli arabi hanno diritti, dove il presidente della Corte Suprema è una donna e dove una donna può sedere dove vuole. Questo è un paese libero».
Malgrado le fondamenta solide dello stato di diritto israeliano, secondo molti osservatori gli haredim rappresentano ormai una minaccia ben reale per l’eguaglianza. Questa comunità vive in uno stato di semi-separazione rispetto al resto del Paese a causa dei privilegi che negli anni le sono stati accordati: in primis esenzione dal servizio militare e sussidi pubblici per permettere gli studi religiosi. Di bassa estrazione sociale e poco istruiti, i suoi membri dedicano la gran parte del loro tempo allo studio della Torah, in scuole gestite dalla comunità stessa.
Hanno per questo tra i più bassi livelli di istruzione del paese, spesso non lavorano (il 60% degli uomini è disoccupato) e, come si è visto, sono minacciosamente intolleranti nei confronti della modernità. Se, all’inizio della storia dello stato ebraico, gli haredim rappresentavano solo una minoranza tra le altre nel grande mosaico di Israele, negli anni le cose sono molto cambiate. Grazie ad un tasso di natalità doppio rispetto al resto del paese, gli ultraortodossi rappresentano oggi il 10% della popolazione e se prima erano confinati a certe zone del paese, oggi non c’è una città che non contenga una comunità haredim.
Qualora questo gruppo, fanatico e improduttivo, continuasse la sua crescita in numeri e peso politico, il futuro di Israele, in termini di progresso economico e di stato di diritto, potrebbe essere compromesso.