“Giaceva proprio lì, il suo corpo immacolato e perfettamente conservato dal ghiaccio”. Rodney Hogg era salito sugli ottomila metri dell’Everest: lì aveva perduto il suo vecchio amico e compagno di scalate Peter Kinloch. Lì lo ha ritrovato qualche mese dopo la tragedia. Quella vola era salito da solo. I genitori di Peter gli hanno chiesto di riportare loro, avesse avuto fortuna, almeno la sua macchina fotografica. Rodney non si è tirato indietro.
Lo ha riconosciuto subito. Peter non ce l’aveva fatta: i morsi del gelo alla fine lo avevano stremato. C’era brutto tempo sull’Everest. Rodney ha ripercorso il cammino di Peter. Lo ha trovato ma non ha potuto soddisfare il desiderio della famiglia. Il corpo era imbracato a una fune: erano stati gli sherpa in un estremo tentativo di salvarlo. Il suo corpo rimarrà così, appeso sul fianco della montagna che lo ha ucciso, per sempre. A meno che qualcuno non tagli la corda con un coltello.
Peter, giovane scozzese di 28 anni, si stava cimentando nell’ultima prova del Seven Summits Challenge, la scalata delle sette cime più alte del mondo. La più alta gli è stata fatale. Attualmente, sul difficile cammino che conduce alla vetta, sono sparsi circa 200 corpi di alpinisti deceduti. Qualcuno sta lì da più di 50 anni. Molti di loro indossano ancora scarponi verdi, una precauzione per essere visibili dagli elicotteri. Per chi se la sentisse, è possibile vedere su un sito (clicca qui) specializzato una galleria di cadaveri di montagna. Macabro, affascinante in modo sinistro.