Nei suoi 43 anni di carriera da giudice federale, Jack B. Weinstein ha concentrato i propri sforzi nel combattere quella che chiama «l’inutile crudeltà della legge». La sua ultima crociata, però, ha destato scalpore perché il beneficiario è un uomo che aveva accumulato moltissimo materiale pedopornografico.
Weinstein non è il solo, tra i magistrati americni, su questa posizione. Nonostante negli Stati Uniti nessuno metta in discussione la necessità di combattere la pedopornografia, molti giudici federali hanno recentemente criticato l’inasprimento delle sanzioni, che negli ultimi dieci anni hanno visto quadruplicarsi, per questo tipo di reati, la durata media della condanne al carcere.
La scorsa settimana, scrive il New York Times, una Corte d’Appello degli Stati Uniti ha revocato una sentenza a 20 anni di prigione per detenzione di materiale pedopornografico, sostenendo che le linee guida previste per tali casi, «se non vengono applicate con estrema attenzione, possono condurre a pronunciamenti irragionevoli». Secondo la sentenza, le pene previste per chi guarda immagini di bambini violentati a volte superano quelle per gli effettivi stupratori.
Nel caso di Weinstein, la battaglia riguarda la pena minima prevista per chi scarichi materiale pedo-pornografico, ovvero i cinque anni obbligatori di galera. «Così distruggiamo delle vite inutilmente, dovremmo farli curare e sorvegliare» sostiene il giudice, che, in un’intervista, ha sottolineato: «Ovviamente non approvo la pedopornografia»
L’uomo che da tre anni sta cercando di salvare da una lunga reclusione è Pietro Polizzi, sposato e padre di cinque figli, che aveva collezionato oltre 5mila fotografie di bambini. In una corte federale, gli spetterebbero come minimo cinque anni di galera, ma la sentenza consigliata ne prevede tra gli 11 e i 14. Grazie a Weinstein, però, il suo processo è stato annullato e verrà ripetuto.
«Non vedo Weinstein come un giudice – ha dichiarato Polizzi in lacrime durante un’intervista – Lo vedo come un padre. Lui aiuta la gente. Non distrugge le vite come ha fatto il pubblico ministero».
L’industria della pedopornografia, negli Stati Uniti, si è sviluppata grazie a Internet. I casi federali sono passati dai 100 l’anno ai 1.600 del 2009. Per fronteggiare l’esplosione del fenomeno, il parlamento americano ha aumentato le pene, stabilendo un minimo obbligatorio di cinque anni di prigione per chiunque scarichi materiale pedo-pornografico. Secondo gli avvocati federali, la media delle condanne è passata dai 21 mesi del 1997 ai 91 del 2007.
Ma la severità delle pene è stata criticata da molti giudici, così com’era avvenuto in precedenza per le condanne legate all’uso di droga. Lo scorso anno, i giudici hanno inflitto pene inferiori a quelle raccomandate in più della metà dei casi di pedopornografia arrivati in tribunale.
«Ciò che preoccupa le corti in tutto il Paese è che ci siano un sacco di individui rispettosi della legge che scaricano per sbaglio le fotografie “sporche” sbagliate e si trovano per questo a dover scontare lunghissime condanne in prigione» spiega Douglas A. Berman, professore di diritto al Moritz College of Law dell’Ohio State University.
Ernie Allen, il presidente del National center for missing and exploited children (che si occupa di bambini sfruttati o scomparsi) contesta questa visione: «L’abuso sui bambini su perpetra anche ogni volta che qualcuno scarica o guarda quelle immagini».
Polizzi si era registrato a un sito Web pedopornografico nel 2005. Per anni aveva raccolto ossessivamente immagini, soprattutto di ragazzine in età pre-adolescenziale. L’avvocato aveva scelto una linea di difesa che puntava sul disturbo mentale, sostenendo che Polizzi era stato violentato più volte da bambino e non aveva raccolto le fotografie per ricavarne una gratificazione sessuale, ma per cercare prove del suo stesso abuso. Una tesi ritenuta poco plausibile dall’accusa. Quando la prima immagine fu mostrata alla corte, l’imputato svenne e fu portato in ospedale.
Alla giuria era stata data la raccomandazione standard di non considerare la pena possibile nell’emettere il proprio verdetto. Dodici giurati su dodici lo ritennero colpevole di ricezione di materiale pedopornografico e 11 di possesso. Allora Weinstain ruppe il protocollo e chiese: se i giurati avessero saputo qual era il minimo della pena prevista in caso di condanna, avrebbero votato allo stesso modo?
Cinque giurati si pronunciarono contro la reclusione, due dissero che avrebbero cambiato il proprio voto. Allora il giudice annullò il processo e ne ordinò uno nuovo. Condannò, però, Polizzi a un anno di prigione per detenzione di materiale pedopornografico. Weinstein dichiarò che era un diritto costituzionale di Polizzi che la giuria sapesse a che pena sarebbe andato incontro in caso fosse stato giudicato colpevole e che lui stesso aveva violato quel diritto. Si impegnò dunque a informarne la giuria del successivo processo, in modo che potesse rifiutarsi di condannarlo se riteneva la punizione eccessiva.
L’anno scorso la Corte d’Appello ha annullato la decisione di Weinsten di fare un nuovo processo, ma non ha precisato se sia permesso o meno informare la giuria delle pene previste. Il caso è stato rinviato e Weinstein ha nuovamente ordinato un nuovo processo, ma con motivazioni differenti. La decisione deve ora essere esaminata in appello.
