IL CAIRO – La polizia del Cairo conosceva Giulio Regeni, e lo cercò nella sua abitazione di Dokki senza trovarlo alla fine del dicembre scorso. La circostanza, ufficialmente smentita nei verbali di interrogatorio dei condomini del palazzo, è confermata da due diverse nuove fonti a Repubblica, che pubblica anche le dichiarazioni rese in una testimonianza agli investigatori italiani da un amico di Regeni. Intanto le immagini delle telecamere che potevano aiutare a ricostruire il caso sono andate perse: dalle telecamere della metropolitana di El Behoos, quella vicino alla casa in cui viveva il ricercatore friulano ucciso in Egitto, non sono più disponibili. Come confermato dal procuratore di Giza che segue il caso, infatti, si sono autocancellate, andando definitivamente perse. I frame sarebbero stati decisivi per ricostruire orari e movimenti del ragazzo.
Ecco cosa riporta Repubblica: “L’11 dicembre eravamo insieme in una sala con un centinaio di persone. L’assemblea era stata convocata da una Ong che si occupa di diritti dei lavoratori per riunire il fronte dei sindacati indipendenti”. “Non si trattava di una riunione particolarmente a rischio. Anzi. La notizia era circolata anche sulla stampa nei giorni precedenti, ed erano presenti anche diversi giornalisti. Una cosa però ci inquietò. Giulio si accorse che durante la riunione era stato fotografato da una ragazza egiziana, con un telefonino. Pochi scatti. Strano. Ne parlammo a lungo. Una delle possibilità è che fossero presenti informatori delle forze di sicurezza”.
Due settimane dopo, secondo le fonti, la polizia cercò Regeni nella sua abitazione senza trovarlo, in un caso minacciando la perquisizione. Come spiega l’amico del ricercatore italiano, “il giorno della scomparsa di Giulio era il 25 gennaio, anniversario di piazza Tahrir, bastava uscire di casa per incappare in un controllo. Nelle settimane precedenti c’era stato un clima di tensione e paranoia fortissimo, non solo nei confronti degli attivisti. C’erano stati controlli a tappeto negli appartamenti abitati da stranieri. Nel clima di paranoia e xenofobia è possibile che alcuni corpi, reparti, gruppi, abbiano scambiato Giulio, il suo lavoro, chissà per cosa. A volte basta essere stranieri e parlare arabo per destare sospetti”.
L’amico, insieme ad altre persone vicine a Regeni, fu convocato la sera del 3 febbraio nella stazione di polizia di Dokki, all’insaputa dell’ambasciata. “Seppi quella sera della morte di Giulio. Me lo comunicarono nella sala d’attesa del commissariato”, ha raccontato. “Mi avevano convocato ‘per farmi alcune domande’. Mi interrogarono in sei, forse sette. Non c’erano magistrati. Cominciarono a chiedermi di Giulio, dei suoi studi, delle sue relazioni al di fuori della ragazza con cui stava, se facesse uso di sostanze stupefacenti”.