INDIA – C’è un caso giudiziario di due italiani detenuti in India che non ha avuto la stessa attenzione di quello dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, eppure è una storia kafkiana e tragica: nel carcere di Varanasi (Benares) sono rinchiusi da 4 anni Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, accusati di aver ucciso il loro compagno di viaggio Francesco Montis, sardo di Terralba (Oristano).
Il prossimo 28 ottobre la Corte Suprema indiana dovrebbe emettere il verdetto finale, l’ultimo atto di una lunga e complessa vicenda in cui appaiono evidenti i limiti della diplomazia italiana quanto quelli del sistema giudiziario indiano, con un pm che ha chiesto la pena a morte per impiccagione e due sentenze di condanna all’ergastolo in primo e e in secondo grado. Un’udienza che è stata già rinviata due volte: prima il 9 settembre, poi il 16.
I genitori dei due giovani, di Albenga (Savona) lui, di Torino lei, temono una nuova beffa, che anche quest’udienza salti, perché in quel periodo c’è la festività indiana del Diwali. Quindi hanno chiesto che venga anticipata al 14 ottobre, ultimo giorno utile prima della festa.
Numerosi sono i punti su cui i parenti hanno da ridire, tralasciando il fatto che l’ultima udienza è saltata perché mancavano gli avvocati della difesa. Infatti Marina, madre di Tomaso, ha chiesto un incontro proprio con gli avvocati che dovrebbero difendere suo figlio ed Elisabetta Boncompagni, per invitare loro a tenere un comportamento più consono a un processo dove gli imputati rischiano il carcere a vita.
Un’altra nota dolente è la visita in India del ministro della Difesa Roberta Pinotti, che è arrivata a Nuova Delhi per sincerarsi delle condizioni dei due marò, dei quali uno (Massimiliano Latorre) è tornato in Italia per curarsi in attesa del processo. Ma la Pinotti ha ignorato il caso di Elisabetta e Tomaso.
Che stanno vivendo un incubo. Erano partiti nel il 28 dicembre 2009 insieme con Francesco Montis. I tre si erano conosciuti qualche anno prima a Londra. All’epoca Francesco (detto Checco, su facebook Kekko) aveva 30 anni, Tomaso 27 ed Elisabetta 36. Checco ed Elisabetta stavano insieme.
Il 3 febbraio 2010 sono a Varanasi, città santa per gli indiani. Elisabetta e Checco si fanno un giro. Vengono avvicinati da un signore che vende loro hashish ed eroina. Tornano in albergo dove c’è Tomaso. Fumano l’hashish, assumono l’eroina, cenano in camera. Il giorno dopo Elisabetta si sveglia, Checco non è nel letto: rantola, agonizzante, sul pavimento. La donna si spaventa e sveglia Tomaso, che prova a prestare un primo soccorso all’amico. Ma Checco non si rianima e i due chiamano la reception dell’albergo. Con l’aiuto dei camerieri dell’hotel, trasportano Checco in un taxi, a bordo del quale arriva in ospedale. Dove il dottore non può che constatarne la morte.
Sul posto arrivano subito i giornalisti, fra le proteste inutili di Tomaso ed Elisabetta indignati perché il corpo dell’amico appena morto viene mostrato scoperto alla stampa. Dopo un discutibile quarto d’ora di notorietà, il cadavere di Checco viene rinchiuso in uno sgabuzzino. Nel frattempo a Tomaso ed Elisabetta viene detto di tornare verso le 2 del pomeriggio. Ritornano, e trovano la polizia che ritira loro i passaporti, rassicurandoli che è solo una pratica di routine in attesa di capire le cause della morte di Checco. I due italiani non pensano minimamente di essere sospettati di omicidio. Chiamano l’ambasciata italiana, telefonano alla famiglia Montis dando la tragica notizia. Tornano in albergo e si accorgono che c’è un piantone a sorvegliare i loro movimenti. In poco tempo verranno accusati di omicidio e portati nel carcere di Varanasi.
L’autopsia fatta dal medico R.K. Singh, che è un oculista, dice che Francesco Montis è morto per “asfissia da strangolamento”. In base a questo, il 7 febbraio 2010, in presenza dell’Avvocato Mr. Vibhu Shankar dello Studio Titus di Nuova Delhi (nominato su indicazione dell’Ambasciata italiana), Tomaso ed Elisabetta vengono arrestati con l’accusa di aver ucciso, strangolandolo, il loro amico. Lo Studio Legale Titus, con la consulenza dello Studio Tulsi (sempre di Nuova Delhi) porta a discolpa degli arrestati una controperizia che dimostra come la morte di Montis è stata per asfissia, ma non causata da uno strangolamento.
Non ci saranno più altre occasioni di acquisire prove dal corpo dell’italiano morto perché il cadavere viene fatto cremare. Il processo parte e si trascina lentamente, ma l’opinione pubblica indiana (a differenza del caso Marò) è in larghissima maggioranza convinta dell’innocenza dei due italiani. Anche perché nel frattempo i genitori di Checco, Angelo Montis e Rita Concas, con una lunga testimonianza resa alle autorità indiane, hanno scagionato i due imputati: il loro figlio soffriva di patologie respiratorie e per di più faceva forte uso di tranquillanti.
Tuttavia il 14 maggio la scarcerazione viene negata. Il pubblico ministero arriva a chiedere la condanna a morte per impiccagione. E poi il 23 luglio 2011, quando Tomaso ed Elisabetta sono in carcere da un anno e mezzo, arriva una sentenza in cui si spiega poco e si condanna molto: Montis è morto per strangolamento. Tesi alla quale non si portano prove che non siano il rapporto di un oculista e una ricostruzione senza testimoni in base alla quale quello di Checco è stato un omicidio passionale in un triangolo di sesso e droga. Tratte queste conclusioni, il giudice indiano condanna i due italiani all’ergastolo. E nella sentenza scrive:
«Il movente che ha spinto i due accusati ad uccidere Francesco Montis non si può dimostrare per insufficienza di prove (..) tuttavia si può comunque ipotizzare che Tomaso ed Elisabetta avessero una relazione intima illecita».
La condanna è stata confermata in appello, a settembre 2012.