Secondo la cooperativa, infatti, l’alt alle merci che portano il marchio israeliano Agrexco è dovuto al fatto che la loro provenienza dai territori occupati da Israele “é dichiarata solo nelle documentazioni commerciali ma non è presente sul prodotto”. Si tratta – si legge nella nota – “di una sospensione temporanea in attesa di ricevere maggiori specificazioni circa l’origine” dei prodotti. L’attuale “modalità di tracciabilita” delle merci Agrexco “non permette al consumatore finale di esercitare un diritto di acquisto consapevole, mancando una reale distinzione fra i prodotti made in Israele e quelli provenienti dai territori occupati”, ha spiegato la Coop.
Il ‘no’ ai prodotti degli insediamenti in Cisgiordania – in gran parte agrumi e datteri – non si configura quindi “come una forma di boicottaggio generalizzato” ma è finalizzato a “salvaguardare un diritto all’informazione corretta sull’origine dei prodotti” ha evidenziato, nella lettera inviata alla rete di pressione pro-palestinese, il direttore Qualità della Coop Maurizio Zucchi.
La versione italiana è stata poi confermata dalla responsabile per le pubbliche relazioni dell’Agrexco Shira Segal Kuperman che, secondo quanto riporta il sito di ‘Stop Agrexco’, ha assicurato: “Lavoriamo con queste società da 50 anni. C’é una legge in Italia che vieta il boicottaggio di prodotti per motivi politici, e queste affermazioni sono infondate”. I prodotti della Agrexco, la maggiore società di esportazione di prodotti agricoli israeliani, della quale il governo possiede il 50%, non sono nuovi a forme di boicottaggio.
In Italia, dallo scorso gennaio, diverse associazioni, che convergono nella rete ‘Stop Agrexco’, hanno organizzato una campagna di protesta contro frutta e verdura provenienti dai territori occupati. E in tutto il mondo, dall’Australia alla California si sono attivati studenti e municipalità per interrompere il commercio di questi prodotti. Mentre in Gran Bretagna, lo scorso dicembre, il ministero dell’Ambiente, dell’Alimentazione e degli Affari Rurali aveva emanato una direttiva secondo cui i supermercati, su base volontaria, avrebbero potuto distinguere sulle loro etichette i prodotti delle colonie israeliane da quelli palestinesi, scatenando le critiche del ministero degli Esteri israeliano.