Oceano Indiano: l’inutile missione italiana contro i pirati

L’Italia è ancora una volta in prima linea nel contrasto alla periferia somala anche se , secondo la legge internazionale, non può attaccarne le basi, affondarne le imbarcazioni e ucciderne o catturarne le ciurme.

Il 12 dicembre scorso il contrammiraglio Giovanni Gumiero ha assunto il comando della missione navale che l’Unione europea schiera da un anno nell’Oceano Indiano, l’operazione Atalanta, che resterà sotto la guida italiana fino ad aprile.

Per la Marina italiana, che negli ultimi due anni ha inviato nell’Oceano Indiano una decina di navi, si tratta di un ulteriore riconoscimento dopo che l’anno scorso lo stesso Gumiero aveva guidato la flotta della Nato nelle acque somale. L’Italia, del resto, fu il primo paese, nel 2005, a inviare le navi da guerra e a scortare i mercantili insidiati dai pirati del Puntland.

La flotta europea è uno dei tasselli di un dispositivo navale composto anche da Nato, Usa, Lega Araba e da una dozzina di paesi (inclusi Russia, Cina, Giappone, Malesia e India) che in quasi due anni ha conseguito ben pochi risultati. I numeri, del resto, parlano chiaro: nei primi 9 mesi del 2009, secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’International Maritine Bureau, gli attacchi dei pirati sono aumentati del 200 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008.

Certo, numerosi mercantili sono stati salvati dall’abbordaggio dei pirati grazie all’intervento (quasi mai letale) di navi ed elicotteri militari americani, russi europei ma anche cinesi, malesi, indiani, giapponesi e di molti altri Paesi che schierano almeno due dozzine le navi da guerra impegnate in estenuanti pattugliamenti di aree marittime vastissime. Missioni mai risolutive ma costosissime se si tiene conto che una nave da guerra italiana costa circa 9 milioni di euro per tre mesi di operazioni. Cioè 100.000 euro al giorno.

Ciò significa che la flotta internazionale nell’Oceano Indiano costa complessivamente circa 2,5 milioni di euro al giorno, 75 al mese, quasi un miliardo di euro all’anno. Navi sofisticate da centinaia di milioni armate di missili e cannoni che non hanno ordini per affondare i barchini del valore di due o tre mila euro utilizzati dalle bande di pirati del Puntland somalo che nel 2008 hanno incassato 120 milioni di dollari (150 stimati quest’anno) in riscatti.

Nonostante tre risoluzioni dell’Onu del 2008 autorizzino le forze internazionali a penetrare nelle acque, nello spazio aereo e nel territorio somalo per colpire i pirati con il via libero del governo somalo (che di fatto non controlla neppure la capitale, Mogadiscio) nessuno stato ha finora ordinato alle sue forze navali di fare quello che si è sempre fatto per combattere la pirateria: attaccarne le basi, affondarne le imbarcazioni e ucciderne o catturarne le ciurme.

In un’epoca dominata dal “politically correct” e da un terzomondismo che induce a “giustificare” anche gli atti criminali, nessun governo ha finora ordinato alle navi da guerra di aprire il fuoco ma neppure di attuare un pur semplice blocco navale che impedirebbe ai barchini e alle “navi madri” dei pirati di lasciare i porticcioli e le baie somale dove vengono al momento tenuti prigionieri circa 300 marinai, gli equipaggi di 11 navi per le quali sono in corso negoziati per il pagamento dei riscatti. L’ultimo, da 2,8 milioni di dollari, l’ha pagato il 10 dicembre l’armatore di un cargo greco. Il giorno prima era stata sequestrata la motonave Shahbaig, battente bandiera pachistana con 29 marinai a bordo mentre il 14 dicembre è finita nelle mani dei pirati somali la nave indiana Laxmi Sagar con 12 uomini d’equipaggio.

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