MILANO – Un paio di settimane di attenzione. Con servizi al telegiornale e segnalazioni giornaliere su siti e quotidiani. Poi è sceso il silenzio sul gruppo di profughi eritrei in fuga dal proprio paese e tenuti in ostaggio da un gruppo di predoni nel Sinai, al confine tra Egitto e Israele. Molti di loro, dopo tre mesi, sono ancora nelle mani degli aguzzini che li sottopongono a costanti torture. Per riaccendere i riflettori su questa tragedia il 29 gennaio, davanti alla rappresentanza milanese della Commissione Europea, si terrà una manifestazione per sollecitare l’intervento delle istituzioni italiane e internazionali in aiuto dei migranti.
Ambiguità. Promotori dell’iniziativa sono l’associazione per i diritti umani “Gruppo EveryOne”, insieme al “Comitato rifugiati eritrei della Lombardia” e al gruppo Facebook “Per la liberazione dei prigionieri nel Sinai”: «Dopo una prima fase di pressione – spiega Roberto Malini, co-presidente del “Gruppo EveryOne” – le istituzioni internazionali si sono convinte che bastassero blande raccomandazioni all’Egitto affinché intervenisse per liberare gli ostaggi. Ma così non è stato». Le autorità de Il Cairo hanno infatti tenuto un atteggiamento ambiguo, dapprima negando l’esistenza del problema e quindi invocando una clausola degli Accordi di Camp David, in realtà aggirabile, che non consentirebbe loro di intervenire nella zona con armamenti pesanti.
Vicolo cieco. Una situazione di stallo, prosegue Malini, davanti alla quale le autorità internazionali sono rimaste inerti, anche per nascondere le proprie responsabilità: «Si è parlato del dramma dei profughi e della crudeltà dei predoni, ma non del fatto che questi fenomeni sono generati anche dalle legislazioni razziste di alcuni paesi occidentali, come quella italiana dei respingimenti». Che condanna questa massa di disperati, in fuga da Somalia, Etiopia, Eritrea e Sudan, a finire nelle mani di trafficanti senza scrupoli, ai quali pagano cifre elevate cadendo in una trappola senza uscita: «Per essere liberati devono pagare un ulteriore riscatto, per poi finire nelle carceri egiziane ed essere rimpatriati nelle proprie terre dove vengono imprigionati e torturati, trovando spesso la morte».
Vagiti di democrazia. Un buon segno potrebbero essere le rivolte antiregime che si stanno diffondendo in questi giorni in molti paesi africani, dalla Tunisia all’Egitto. Anche se, osserva Malini, «saranno importanti se porteranno a un processo democratico solido, magari col ritorno delle opposizioni in esilio. Se a una dittatura se ne sostituirà un’altra o una democrazia attaccabile dagli estremisti, la popolazione non ne trarrà giovamento». Movimenti che dovrebbero trovare l’appoggio dei cittadini occidentali decisi a far sentire la propria voce partecipando a manifestazioni come quella del 29 gennaio (alla quale seguirà una fiaccolata a Roma l’1 febbraio), ma anche rivolgendosi direttamente alle istituzioni europee per far pressione su quei politici «sempre presenti davanti a taccuini e telecamere, ma che poi non agiscono per trovare le soluzioni».
