ROMA – Shakila dormiva quando un gruppo di uomini armati di kalashnikov la strappò al sonno e alla sua casa. Aveva otto anni e ricorda ancora le ingiurie e le proteste di quegli uomini, gridavano di essere stati disonorati, si lamentavano che non fossero ancora stati pagati per l’affronto ricevuto. Solo più tardi capì di essere lei stessa il risarcimento, l’indennizzo in carne ed ossa.
L’agghiacciante testimonianza è stata raccolta da Alissa J. Rubin, corrispondente del New York Time da Asadabad, Afghanistan. Pubblicata in prima pagina sulla global edition del quotidiano, la cronaca riferisce su una antichissima forma di giustizia che ha origine prima dell’islamizzazione del paese, una pratica tribale delle antiche popolazioni nomadi che la modernità, pur confinandola in zone rurali inaccessibili, non è riuscita a sradicare.
Si chiama “baad” questo primitivo sistema per risolvere i contenziosi fra famiglie. Il pegno è quasi sempre una bambina, ridotta in schiavitù o costretta al matrimonio dalla famiglia risarcita. Secondo la legge afgana e anche secondo la regola islamica è illegale, ma è tuttora praticata dall’etnia Pashtun in alcune aree rurali del sud e dell’est del paese.
Shakila ha subito lo stesso destino, ma è stata, se così si può dire, fortunata. La sua prigionia, la lunga detenzione ha avuto termine. Dopo un anno di sevizie è riuscita a fuggire. Nella sola provincia di Kunar, la stessa di Shakila, non esiste una contabilità ufficiale, ma si conoscono almeno due casi al mese. Le vittime, ostaggi senza vie d’uscita, hanno il destino segnato: torture, violenze continue e un lavoro più adatto a bestie da soma le attende.
Pagano colpe di altri. Il cugino di Shakila, per esempio, era fuggito con la moglie di un pezzo grosso del clan Gujar. L’onta sarebbe stata lavata. Il padre, contadino poverissimo, era disperato: aveva promesso Shakila in sposa a qualcun altro. Cosa costringe alcuni Pashtun a rinunciare ad opporsi, magari appellandosi alla jirga, il tribunale islamico?
Una sfiducia atavica, immodificabile in una giustizia i cui funzionari chiedono apertamente denaro per ogni singolo caso. L’instabilità cronica a causa della guerra permanente. Va considerato, poi, un potente fattore socio-culturale di difficile estirpazione: i nomadi non riconoscono polizia, tribunali, giudici. Se devono risolvere una questione si disfano più volentieri delle ragazzine: l’idea è che il matrimonio legherà strettamente le famiglie, impedendo successivi spargimenti di sangue, interrompendo la faida.
Ora Shakila e la famiglia vivono a Asadabad, la capitale della provincia. Si sono lasciati alle spalle i pochi averi, una mucca e due capre. “Non possiamo tornare” dice il padre. “Non so nulla del mio futuro, se sarà bello o brutto”, sospira Shakila, guardando fuori dalla finestra.