HOMS – Nei giorni della rivoluzione, alle sofferenze delle famiglie siriane che pagano un insopportabile prezzo di morte per una società più libera, si aggiunge la tragedia dei feriti. Nel paese non soltanto è proibito esprimere la propria opinione ma perfino dare e ricevere cure mediche. In questa terra medici e infermieri sono tra le prime vittime delle esecuzioni dell’esercito, per la sola ragione del loro lavoro: salvare esseri umani, di qualsiasi appartenenza politica essi siano.
Il personale degli ospedali è in costante pericolo, bersagliato dall’esercito, a volto torturato e ucciso. Lo scrittore e giornalista Jonathan Littel, in una testimonianza raccolta da Le Monde, racconta di un infermiere di Al-Qusair, sobborgo di Homs, arrestato subito dopo avergli fatto visitare il suo centro di pronto soccorso. Altri sono morti, come Abdur Rahim, ucciso a sangue freddo da alcuni soldati nel novembre del 2011, mentre cercavano di raggiungere dei feriti, oppure torturati, per aver prestato assistenza a delle vittime della repressione.
Ad Homs, caposaldo della rivolta siriana, i due ospedali della città sono sotto il controllo delle forze di sicurezza. L’esercito ne impedisce l’accesso ai civili e sembrerebbe che gli scantinati e alcune sale siano diventate stanze della tortura. Nella città i soli luoghi dove i feriti possono ricevere un sommario trattamento medico sono le cliniche private ma queste sono sottoposte ad attacchi permanenti da parte delle truppe del regime. In una di queste, visitata dal giornalista, si trovavano solo due infermiere.
«Accettiamo solo i casi urgenti – gli ha spiegato una di loro – e li ospitiamo solo per qualche ora. Le forze di sicurezza fanno costantemente irruzione e arrestano tutti quelli che trovano. I medici sono stati costretti a firmare una promessa di non curare i manifestanti».
Le pratiche dell’esercito e dei servizi segreti, i temibili Mukhabarat, rimettono a zero decenni di convenzioni e trattati del diritto bellico. Si raccontano storie di feriti gravi che, mentre sono trasportati in ospedale,vengono intercettati dai soldati e condotti all’ospedale militare dove, invece di essere curati, sono torturati per ore. Un uomo che non ha voluto dare il suo nome, e che in seguito alla tortura ha perso una gamba, racconta che i soldati, dopo averlo bendato e legato, lo colpivano sulla testa e sul corpo. «Poi – continua – mi hanno attaccato delle corde alla gamba ferita e l’hanno tirato in tutti i sensi. Mi hanno fatto molte altre cose, ma non ricordo ». Mentre lo torturavano, gli aguzzini gridavano «Vuoi la libertà ? Eccola la tua libertà !».
Queste pratiche non devono essere imputate ad un eccesso di zelo, al sadismo di alcuni soldati inesperti o al clima di guerra civile che si è instaurato. Esse dipendono dalla filosofia propria dell’apparato repressivo del regime. Come spiega Abu Salim, un medico militare che per due anni ha lavorato con i mukhabarat prima di passare alla rivoluzione, la missione di un medico dei mukhabarat è 1) mantenere in vita le persone torturate perché possano essere interrogate più a lungo possibile 2) quando l’interrogato perde conoscenza, fare in modo che si risvegli perché l’interrogatorio continui 3) supervisionare l’utilizzo di sostanze psicotrope 4) infine, se la persona torturata si trova in pericolo di morte, il medico può domandare l’autorizzazione, rilasciata solo da un’autorità militare, per un ricovero in ospedale. Prima della rivoluzione, spiega Salim, tutti, quando erano giunti allo stremo delle forze, erano ricoverati. Oggi sono solo i prigionieri importanti. Gli altri sono lasciati morire.
