Il kamikaze che il 30 dicembre si è fatto esplodere a Khost in Afghanistan, causando la morte di 7 agenti della Cia, non era un anonimo giovane esaltato e manovrabile. Quello che è ora assurto a eroe della jihad islamica mondiale conduceva una doppia vita da consumato agente segreto. Il suo “capolavoro” da terrorista l’ha portato a compimento rivelando un talento da triplogiochista.
La Cia credeva che il medico, un passato di megafono tramite web dei deliri di al-Qaeda, lavorasse per loro. La realtà dei fatti si è incaricata di smentire le malriposte aspettative dell’intelligence americana.
Humam Khalil al-Balawi, medico giordano, aveva avuto in passato legami con al-Qaeda al punto da essere finito in carcere. Secondo i Servizi Segreti statunitensi, però, il dottore si era “ravveduto” ed era disposto ad aiutare gli Usa nella lotta al terrorismo. Disposto al punto da infiltrarsi tra le fila dell’organizzazione terroristica in un’operazione che aveva l’obiettivo di individuare il covo di un altro medico, il numero due di al-Qaeda, Ayman al Zawahiri e quindi ucciderlo.
Balawi, però, l’intenzione di collaborare con gli Usa non l’ha mai avuta e, conquistata un po’ di fiducia ha creato subito un’occasione utile per colpire. Il medico ha fatto credere di avere novità da riferire e ha fatto organizzare un briefing con altri agenti segreti: si è imbottito di esplosivo e ha causato la strage. All’incontro era presente anche l’alto funzionario dell’ intelligence giordano Sharif Ali bin Zeid (un membro della famiglia reale giordana) che aveva svolto in passato il ruolo di contatto con al-Balawi.
Per la Cia l’episodio è un colpo duro da più punti di vista. In primo luogo, spiega il New York Times, con la morte di Balawi naufraga il progetto di arrivare, in tempi brevi, con gli infiltrati fino ai vertici dell’organizzazione terroristica. Ma c’è dell’altro: il kamikaze di Khost mette in crisi anche la fiducia che la Cia ripone nell’intelligence giordana, considerata uno degli alleati “più attendibili”.
Balawi, infatti, dopo l’arresto nel suo Paese, aveva simulato una volontà di collaborazione e in Giordania gli hanno creduto al punto da “girarlo” agli Usa e garantire sulla sua credibilità. E per il paese arabo la verità si è rivelata scomoda anche sotto un altro aspetto: le autorità giordane, infatti, non vogliono che ai dettagli della loro collaborazione con gli Usa sia data troppa pubblicità.
Questo spiega la reticenza e lo scarso rilievo dato in Patria alla morte di Zeid. In Giordania, del resto, almeno la metà della popolazione ha origini palestinesi: gente che non gradisce minimamente la collaborazione della famiglia reale con Washington.